di Caterina Della Torre
Lucina de Meco la conoscete già in quanto scrive su queste pagine (oltre che sul suo blog) ma ho voluto approfondire la sua interessantissima conoscenza.
Nata a Sanremo, 35 anni fa , è sposata e con un bambino di due anni. Laureata a Torino in Scienze Internazionali e Diplomatiche, ha conseguito un Master in Economia dello Sviluppo dalla University of East Anglia (Regno Unito) e un Diploma in Studi di Genere. Da oltre 10 anni vive e lavora fuori dall’Italia, prima in Messico, un Paese che ama profondamente, e ora negli Stati Uniti, a New York. Si occupa di diritti delle donne e cooperazione allo sviluppo.
Il tuo lavoro è stata una scelta operata già dopo gli studi universitari o è maturata gradualmente?
Entrambe le cose. Immediatamente dopo la laurea ho deciso di lavorare nella cooperazione allo sviluppo, volendo specializzarmi in programmi di tipo economico, legati alla riduzione della povertà. Lavorando alle Nazioni Unite in Messico, invece, accorgendomi che parlare di povertà estrema vuol dire spesso parlare di donne, ho iniziato a interessarmi alle questioni di genere. Da allora, mi sono occupata principalmente di programmi tesi a migliorare la condizione femminile nei Paesi in Via di Sviluppo.
Sei sempre in viaggio tra un paese e l’altro. Ciò ti permette di avere una tua vita privata? O gli ostacoli sono superati dai vantaggi?
A dire il vero, da quando ho avuto mio figlio due anni fa ho smesso di viaggiare e lavoro da consulente freelance, principalmente da casa, per ONG e fondazioni. Prima di avere mio figlio, spendevo varie settimane l’anno in America Latina e questi viaggi rappresentavano la parte più interessante e motivante del mio lavoro. Non solo perché mi permettevano di conoscere realtà diverse e provare cose straordinarie, come dormire sotto le stelle e mangiare formiche arrostite nella foresta amazzonica, ma soprattutto perché attraverso questi viaggi ho potuto conoscere decine di donne straordinarie che lottavano per i diritti delle donne nelle condizioni più difficili e talvolta pericolose. Non sono sicura se tornerò a viaggiare nello stesso modo e con la stessa frequenza, ma spero di continuare ad avere la possibilità di esplorare e imparare.
Quale dei paesi in cui hai lavorato finora ti ha dato maggiori soddisfazioni?
Ci sono tanti tipi di lezioni e di soddisfazioni che vivere all’estero può offrire. Prima di venire a New York, io e mio marito abbiamo vissuto quattro anni a Città del Messico. Li ho conosciuto persone meravigliose, generose e profondamente sagge che mi hanno insegnato moltissimo sul come relazionarmi con le persone a livello umano e lavorativo. In Messico resta ancora oggi grande parte del mio cuore. Da un punto di vista strettamente professionale, forse il lavoro più interessante che ho fatto è stato quello sulla prevenzione dell’AIDS e la sensibilizzazione di genere con le popolazioni indigene dell’Amazzonia peruviana.
In quale dei paesi in cui hai vissuto lavorato trovi che le pari opportunità vengano meno considerate e perché?
Ogni Paese ha delle sfide particolari e uniche, ma mi ha profondamente turbato la situazione delle donne in El Salvador, soprattutto per quel che riguarda i diritti riproduttivi. In questo Paese, l’aborto è illegale e punibile con prigione in qualsiasi circostanza (sia per le donne che se lo procurano che i dottori che le aiutano). Non è permesso abortire neanche quando la gravidanza non è viabile (come nel caso di gravidanze extrauterine) e/o mette a rischio la vita della madre.
Come oggi nel caso di Beatriz, una donna di 22 anni con insufficienza renale, incinta di un feto anencefalo, cioè senza cervello e quindi impossibilitato a sopravvivere fuori dall’utero. La vita della donna è a rischio a causa della gravidanza e il feto è comunque destinato a morire. Eppure anche così, le corti hanno impedito ai dottori di operarla, di fatto condannando lei a morte (o a gravissimi danni fisici) e non potendo comunque salvare suo figlio. Personalmente, continuo a non capire come un movimento che si definisce per la vita possa glorificare questo tipo di crudeltà.
Quando si parla di pari opportunità sì parla di donne. Pensi che si dovrebbero comprendere anche altre categorie?
Il concetto di pari opportunità abbraccia tutti i gruppi di popolazioni “vulnerabili” e tradizionalmente discriminati non solo per il genere, ma per la razza, la religione, l’orientazione sessuale, eccetera. Negli Stati Uniti, per esempio, questo termine non s’identifica esclusivamente né principalmente con le politiche per le donne. Comunque sia, le terminologie non sono importanti, ma le pratiche.
Credi che accorpare sport e pari opportunità nel nuovo governo italiano sia uno sbaglio?
Vista la gravità della condizione femminile in Italia, credo sarebbe stato più opportuno dedicare un ministero completo (con portafoglio) alle pari opportunità. Comunque sia, credo che la leadership della persona in carica e la sua capacità di attirare l’attenzione di opinione pubblica, esecutivo e legislativo sulle tante riforme necessarie sia ancora più importante. Mi pare che Josefa Idem abbia iniziato bene con l’idea della Task Force sulla Violenza di Genere. Staremo a vedere come si sviluppano le sue proposte.
E che ne pensi delle 7 donne al governo? Troppo poche ?
Lo dico apertamente: io credo che le donne, rappresentando la metà della popolazione, dovrebbero avere la metà delle cariche pubbliche. Comunque sia, 7 ministri su 21 sono un passo avanti rispetto al passato e spero siano il segnale che le cose stanno cambiando anche nel nostro Paese. A fare la differenza, ancora più che il loro numero, sarà alla fine il peso che riusciranno ad avere queste donne e l’impegno con cui si adopereranno per promuovere le pari opportunità in tutti i campi. Sarà perché vivo nel Nuovo Mondo e qui si è sempre più ottimisti, ma per il momento, sono fiduciosa.