Cristina Obber ha pubblicato un libro che racconta la storia vera, di una ragazza siriana cresciuta in Italia e portata in Siria con l’inganno per un matrimonio combinato.
Come ci si ribella a un matrimonio combinato?
Amani si è ribellata rifiutandosi di baciare, toccare, sposare un uomo che non voleva. Aveva 16 anni. E’ partita con l’idea di stare in Siria cinque giorni per sistemare una vocale sbagliata sul passaporto. Appena arrivata si è ritrovata con il velo, tre vestiti indossati uno sull’altro e un cugino da sposare. Ha detto no, piuttosto morta.
E’ stata picchiata, umiliata, imbottita di farmaci per renderla più arrendevole, ma lei ha resistito, con una forza pazzesca, per tredici mesi.
Come vi siete incontrate?
Amani era la migliore amica di mia figlia Giulia alle elementari. Per un cambio scuola ci siamo perse di vista, poi due anni fa mia figlia mi ha detto “Ti faccio una sorpresa, ti porto a salutare una persona”, e così ci siamo riviste.
E avete deciso di scrivere il libro…
Quando mi ha accennato a quello che le era accaduto mi sono sentita attraversare da un’emozione fortissima, le ho detto “Queste cose vanno raccontate” ed è stato in quel momento che ho pronunciato la parola libro, è successo tutto in pochi minuti, in piedi, in una piazzetta del centro. Poi abbiamo cominciato a vederci e sentirci per ricostruire la storia. All’inizio i suoi ricordi erano confusi. Fino a quel momento Amani aveva cercato solo di dimenticare, ma dal primo incontro si è resa conto che cercando di seppellire il dolore quel dolore continua a farti male, condividerlo e pronunciarlo ad alta voce diventa una forma di riscatto personale oltre che di denuncia.
Quando era in Siria nessuno la soccorreva quando la picchiavano?
In quel villaggio, che non rappresenta però tutta la Siria – non possiamo generalizzare – le donne venivano picchiate normalmente, dal padre, dai fratelli, dagli zii. Non si scandalizzava nessuno per questo. La madre sperava solo che Amani si rassegnasse, si addomesticasse, si comportasse come una donna lì si deve comportare.
Per le donne di quel villaggio tutto è “Haram”, “peccato”, anche scoprirsi le braccia mentre lavano i piatti, dentro casa.
Ascoltare i suoi racconti in alcuni momenti è stato devastante anche per me, perché non ci credi, non ti sembra possibile, perché sai che in quel momento altre donne, ragazze, bambine, stanno subendo quello che ha subito lei, e te lo senti addosso, lo senti sul tuo corpo, e fa male. Lei parlava e io mi ricordavo di quando giocava con mia figlia e questo mi rendeva ancora più palpabile la sua sofferenza.
A che età di sposano le donne di quel villaggio?
Tra i quindici e i venti anni generalmente. Non vanno a scuola, a otto anni sono già dedite ai lavori domestici o a raccogliere canne da zucchero nei campi, come anche Amani ha fatto per qualche giorno. Per il resto si occupano di cucinare e servire gli uomini, sono completamente sottomesse anche ai propri fratelli.
Possono essere picchiate con un bastone per aver servito un tè troppo caldo, per aver osato brontolare ad un rimprovero, rischiano la vita se non arrivano vergini al matrimonio.
Dall’Italia nessuno l’ha aiutata?
Amani era minorenne, ed era in Siria con i suoi genitori. Qui qualcuno ha cercato aiuto nelle istituzioni ma si è sentito dire che Amani non aveva la cittadinanza italiana e quindi non era possibile intervenire.
Oggi che rapporti ha Amani con la sua famiglia e i suoi parenti?
Con i suoi parenti nessun rapporto e nessun contatto, nemmeno con il padre, ancora in Siria.
Appena divenuta maggiorenne, poco dopo il rientro in Italia, ha chiuso i rapporti con il resto della sua famiglia, ma poi li ha ripresi, ha cercato di comprendere che per una madre cresciuta in un certo modo e sposa a quattordici anni, forse non era facile essere migliore di come è stata. Inoltre Amani è una persona molto positiva, vivere portandosi addosso odio e rancore le avrebbe fatto solo dell’altro male, e lei non vuole più stare male. Amani è solare, è innamorata della vita.