Una donna nata dalla sinistra con ancora la sindrome dell’abbandono addosso, con il cordone ombelicale ancora fresco ed esposto, in attesa che si rimargini la ferita.
di Grazia alias Cromo
Ecco, le dita fremono e aspettano che i pensieri si coordino per bene perché in mente avrei la quantità di mille libri da raccontarvi per quanto al momento io abbia vissuto solo 44 anni.
Sono Grazia, alias Cromo e, oggi qui, per voi tutte, il mio nick per le occasioni importanti, Cromo2X, quello per cui avrei voluto creare un’associazione donna ma le cui compagne ho perso per strada ed il cui progetto rimane solo accantonato.
Sono cresciuta in una famiglia aperta al mondo. Sono figlia di vecchi sindacalisti e ho sempre considerato la Camera del Lavoro, la mia prima casa, più di quella di residenza.
Mi ritengo una donna nata dalla sinistra con ancora la sindrome dell’abbandono addosso, con il cordone ombelicale ancora fresco ed esposto, in attesa che si rimargini la ferita. Grondo dolore politico da tutti i pori e con tutti i sensi. Son qua, come il mercurio cascato per terra in milioni di pallini, in attesa che un colpo di vento (o di scopa se preferite), mi ricongiunga al resto, per ricreare una unica entità.
Vivo a Sud, quel luogo dove le infrastrutture ed il sistema organizzativo sono ancora più a sud di quello che voi immaginate. Quel gap atavico che, per quanto ci sforziamo di eliminare, proprio per la nostra storia e a causa di coloro che scappano e non resistono combattendo questa terra, tarderà ancora e ancora ad essere eliminato.
Ho fatto ferro e fuoco per rimanerci. Sarebbe risultato davvero più semplice vivere altrove, ma il colore e l’odore di questi luoghi mi tengono e mi terranno ancorata qui e che, con l’ottimismo che mi scorre dentro, tento di migliorare ogni giorno e, vi garantisco, è davvero complicato.
La difficoltà maggiore è derivata proprio dall’essere nata donna, dall’aver deciso di divorziare, dal dover lavorare per sopravvivere, dall’assenza di sostegni per le donne che lavorano e che hanno figli in età scolare, dall’avere “capi” uomini.
Lavoro in un Comune che dista 30 km dal luogo dove risiedo e se decidessi di raggiungerlo con i mezzi pubblici, impiegherei, tra andata e ritorno 2 ore e mezza della mia giornata e, quindi, per risicar tempo, li percorro da sola in auto. Quel tragitto, il più delle volte, mi consente di non dover provvedere ad altro, se non alla guida (salvo telefonate urgenti) e mi rilassa un poco.
Ho chiesto la flessibilità oraria per via di mio figlio e, solitamente, arrivo in ufficio alle 9 ed esco alle 15. Mangio un panino al volo oppure schifezze, rimandando il pasto vero all’ora di cena che non arriva mai prima delle 21,30 (quando va bene) , rallentando così il mio metabolismo e gli abiti pare si restringano ogni giorno che passa.
Da due anni sono in semi distacco sindacale e quindi divido la mia settimana tra lavoro e delegazioni trattanti negli Enti Locali con un’agenda così variabile che se fosse la rilevazione di un elettrocardiogramma, sembrerebbe ci sia un infarto in atto.
Forse vi sto annoiando con questo mio racconto ma riguarda gli sforzi che compio ogni giorno consapevolmente e che sono la fotocopia della vita di molte di noi. Sto tentando di rimarcare l’affanno quotidiano di contribuire al miglioramento dei contesti in cui, noi donne, ci muoviamo e le cui opportunità a noi offerte sono rappresentate da tesori custoditi dentro residenze quasi inespugnabili.
Avevo dimenticato di dirvi che vivo con nonna, donna 86enne, forte come un cavallo ma che, dopo un’ischemia, ha cambiato un poco la visione del mondo, il suo vocabolario ed il riconoscimento degli oggetti e delle frasi … insomma, è diventata particolarmente simpatica ma da controllare a vista, specie quando per riscaldarsi il latte, mette direttamente la tazza sul fuoco o quando scambia un unguento per il dentifricio.
In tutto ciò vengo aiutata da mia madre e mio padre, vero welfare italiano, insostituibili sostegni vitali e affettivi. Qui in Italia, e al Sud peggio ancora, se hai un figlio piccolo e una nonna con necessità di assistenza continua, e sei donna, se non hai una famiglia larga, disponibile e accogliente, sei fottuta e puoi solo sperare che non ti tolgano il figlio perché non riesci a seguirlo nel suo sviluppo. Non è una condizione irrilevante.
Grazie a mio padre e a mia madre, invece, riesco invece a conciliare l’attività lavorativa, quella sindacale, la mia passione politica e quella per la comunicazione (su quest’ultima non sono un’esperta ma un’autodidatta in perenne stadio di apprendimento).
Se non fosse per loro, sarebbe davvero impossibile accettare di spostarmi su Roma o anche solo su Bari, per riunioni, convegni, assemblee e corsi di formazione. Sarei TAGLIATA FUORI.
Guadagno millequattrocento al mese … secondo voi, come fa una donna ad impegnarci socialmente o soltanto a lavorare, con un figlio che ancor non è indipendente, quando il territorio in cui vive non offre alcun servizio, neanche il tempo pieno a scuola? Ditemi, come si fa? Sono forse io un’incapace a gestire il mio stipendio?
Per oggi sospendo il mio racconto qua, lasciandovi questa riflessione e sperando di sollecitare anche qualche “lettore” che occupa posizioni apicali, decisionali. Questa società non offre alcuna opportunità alle donne che costituzionalmente vogliano contribuire al miglioramento dell’Italia, non offre opportunità se non si è ricche o almeno in condizione economica agiata, non offre opportunità se non rinunciando alla maternità. Occorre crearle le condizioni ed io, grazie al sostegno della mia famiglia (che per lo Stato rappresenta un notevole risparmio in un ipotetico bilancio sociale) tento di farlo, con estremo sacrificio perché credo che se il cambiamento ci sarà, avverrà solo grazie a NOI, a NOI DONNE.
Siamo gocce, molte ancora allo stato gassoso e arriverà il tempo in cui, grazie al “tempo”, grazie ai venti, in cui, in(scon)trandoci diventeremo una forte corrente travolgente.