Sheryl Sandberg afferma che una posizione lavorativa di potere, stimolante e che comporta elevati livelli di responsabilità, interessa più agli uomini che alle donne
Sheryl Sandbergdirettore operativo di Facebook e nominata dal Time una delle 100 persone più influenti al mondo, nel suo libro “Facciamoci Avanti”, scrive: “una posizione lavorativa di potere, stimolante e che comporta elevati livelli di responsabilità, interessa più agli uomini che alle donne”.
Tale considerazione è supportata da alcuni studi: in prima linea, da un rapporto Mckinsey del 2012 relativo ad una ricerca condotta su oltre quattromila dipendenti di aziende in merito al desiderio di diventare amministratore delegato, emerge che tale interesse sia maggiormente presente fra gli uomini (36% contro il 18% delle donne). Questo gap troverebbe conferma, scrive sempre la Sandberg, anche fra gli studenti universitari come anche fra i professionisti, campioni di popolazione in cui sono sempre gli uomini a distinguersi come più ambiziosi rispetto alle donne.
Voci controtendenza arrivano da altre indagini di settore. Da una ricerca condotta da Adecco, azienda per la gestione delle risorse umane, su un campione di 2580 lavoratrici, emerge che il 42,8% del campione intervistato desidera far carriera senza rinunciare alla maternità. All’interno dello stesso studio, alla domanda “a cosa non sei disponibile a rinunciare per il lavoro?”, solo il 27,46% ha risposto i figli, come a dire che addirittura il 70% delle intervistate sarebbe disponibile a rinunciare alla maternità per la carriera.
Allora le donne vogliono fare carriera?
Probabilmente alcune vogliono crescere professionalmente, perché desiderose di poter raggiungere obiettivi importanti e di poter realizzare progetti ambiziosi, mentre altre magari individuano nella famiglia o in altro le proprie priorità. Altre donne ancora, invece, desiderano crescere professionalmente senza per questo rinunciare al progetto di famiglia e maternità.
Se è vero che le scelte di vita sono personali e soggettive, è altresì indiscutibile il fatto che tali decisioni siano anche fortemente condizionate dal contesto sociale in cui si cresce e si vive e dall’educazione ricevuta.
Le donne non sono sicuramente stimolate e incentivate alla leadership. E con questo non faccio riferimento solamente alla mancanza di sussidi sociali che facilitino la conciliazione e al gap gender presente nel mercato del lavoro, ma anche alla mancanza di un’educazione tesa a coltivare uno spirito ambizioso.
Infatti, come scrivono B.Bauer, G.Bagnato e M.Ventura nel loro libro “Puoi anche dire “no”!”, le donne sono educate ad assumere un atteggiamento accondiscendente nei confronti del mondo esterno e quindi ad essere poco assertive (ovvero la capacità di autoaffermarsi). Questo non significa che le donne siano prive di idee, progetti e iniziative, soltanto che spesso si fermano ai blocchi di partenza e desistono dall’investire in loro stesse.
La stessa Sandberg asserisce che nella nostra società dire che una donna è ambiziosa “non è un complimento”, in quanto le donne grintose e che portano avanti con determinazione, vigore e fermezza le proprie convinzioni “violano le regole non scritte della condotta sociale ritenuta accettabile”.
Non solo. Nella nostra società diventa ancora meno accettabile contemplare che una donna possa rinunciare alla maternità per fare carriera: questa scelta di vita viene vista come “strana” e/o “egoista”, mentre nel caso in cui sia un uomo a farla, la questione cambia. Egoiste sono anche considerate le mamme che mantengono ferma la loro ambizione e il loro forte impegno nel lavoro, in quanto non dedite completamente ai figli e con una spinta all’auto-affermazione personale che prescinde dal proprio ruolo di madre.
Infatti se ci pensate bene, quando si legge di qualche notizia di donna riuscita a scalare i vertici, le osservazioni e i commenti sono spesso e volentieri tesi a squalificarla e a metterne in discussione il valore: riferimenti ad appoggi e supporti vari, al suo aspetto fisico oppure se sul resto è inattaccabile, allora diventa necessariamente “gelida, fredda, autoritaria”.
Pertanto sono propensa a pensare che le donne avrebbero l’ambizione a fare, realizzare e progettare, ne è una testimonianza anche il crescente numero di start-up femminili , tuttavia spesso manca il coraggio e la spinta a provare, rischiare e investire in se stesse, perché le donne spesso mancano di fiducia in loro stesse e nelle proprie potenzialità, a causa anche di un’educazione improntata al dover essere “ubbidienti” e “brave”, ovvero “buone e consenzienti”. Infatti nella nostra società il lavoro femminile è ancora inteso come necessario e funzionale al sostentamento familiare ma decisamente meno alla realizzazione e alla soddisfazione personale e individuale, per cui si continua a pensare, erroneamente, che la massima aspirazione per tutte le donne sia e debba essere la maternità.
Se consideriamo che il nostro agire e quindi anche ciò che riusciamo a fare e ad ottenere dipende molto da noi e in particolare, dal nostro modo di pensare, è chiaro che se noi per prime crediamo di non essere in grado di poter ambire a ruoli di leadership, allora sarà molto verosimile che questo non si realizzi. Sandberg sostiene che se le donne lasciassero la paura di investire in se stesse e quindi l’atteggiamento defilato, aggiungo io, probabilmente vi sarebbero maggiori possibilità di “perseguire il successo professionale e la realizzazione personale e scegliere liberamente l’una, l’altra o entrambe”.
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Interessante articolo, in quanto offre spunti di riflessione. Io sono propensa a credere che ogni donna, come ogni uomo, nel suo profondo desideri far carriera ed avere successo. Ciò che la frena non è tanto la scarsa fiducia nelle proprie capacità, quanto la contingenza sfavorevole e in primis una certa educazione socio-culturale che ha favorito l’interiorizzazione di stereotipi sbagliati e quindi di una scala di valori discutibile.
Noemi Di Gioia, autrice di “Uguaglianza o differenza di genere? Un saggio scritto per le donne ma soprattutto per gli uomini”, ePubblica,2012