Per definirsi femministe in Italia oggi ci vogliono molto coraggio, un cuore generoso e conoscenza dei fatti. Ne parla Laura Corradi
di Lucina di Meco da Little Light Lab
Per definirsi femministe in Italia oggi ci vogliono molto coraggio, un cuore generoso e conoscenza dei fatti. Tutte doti che Laura Corradi, Ricercatrice e docente di Studi di Genere nell’Università della Calabria, ha da vendere. Oltre al femminismo, io e Laura abbiamo in comune l’esperienza dell’America e l’impazienza per una società che, nei temi di genere, va avanti ancora troppo lentamente. Anche a causa di un immaginario collettivo dettato, tra le altre cose, da immagini pubblicitarie che relegano le donne a ruoli limitanti e stereotipati. Di questo e di altro parla Laura nel suo libro ‘Specchio delle sue brame. Analisi socio-politica delle pubblicità: classe, razza, genere, età ed etero-sessismo”, pubblicato da Ediesse. E visto che nessuno meglio di Laura sa parlare di questo tema, ho deciso di farle qualche domanda e dare la parola a lei.
Grazie a documentari come Il Corpo delle Donne, Videocracy, a ricerche e libri come il tuo, oggi esiste un’aumentata consapevolezza del ruolo delle pubblicità nel diffondere e fomentare una visione delle relazioni di genere che limita, umilia e talvolta addirittura cancella le donne. Trovi che questa consapevolezza si sia tradotta in un miglioramento dell’offerta pubblicitaria quanto a immagine femminile?
Sicuramente i pubblicitari sono molto sensibili riguardo ciò che viene detto e scritto sul loro operato. Improvvisamente hanno resuscitato le top-model degli anni 80 – una modella ventenne per una crema antirughe è poco credibile. La Nutella ha scoperto che esistono anche bambine di colore, i mobilifici che mettono su casa anche le coppie non eterosessuali e le disabili arrivano a sfilare sulle passerelle della moda. Tutto ciò è buona educazione – hanno letto le critiche e si sono impegnati a dare un’immagine del nostro paese più civile e meno ridicola. Ma la maggior parte delle pubblicità – sulle quali si spendono milioni di euro (che noi paghiamo nel prezzo dei prodotti) è ancora marcatamente fondata su stereotipi di genere, razza e sessuali – un mondo dove tutti sono giovani, ricchi e spensierati. E fanno ancora uso sproporzionato di corpi (anche di bambini/e) e sentimenti – anche attraverso l’ipnosi come spiega il libro di Daniele Chiolo. Si tratta di un consumo obbligatorio di immagini e suoni a cui siamo sottoposte/i quotidianamente e continuativamente, il che implica un livello serio di manipolazione di massa specie nei confronti delle persone giovani.
Violenza sulle donne e femminicidio stanno assumendo, giustamente, un ruolo centrale nell’agenda per le pari opportunità di questo governo. Al di là dei singoli casi eclatanti (vedi gli oramai tristemente famosi cartelloni pubblicitari di una marca di stracci), qual è in generale il ruolo della pubblicità nel fomentare una cultura di violenza?
Molte pubblicità si fondano sul binomio sesso e violenza – come nei film la ragione è semplice: attira l’attenzione. Continuare a riprodurre tali immagini contribuisce a sdoganare l’idea che sesso+ violenza sia ok, rafforzando atteggiamenti e comportamenti nei confronti delle donne i cui effetti sono sotto i nostri occhi. E’ chiaro che anche le pubblicità sono un prodotto delle nostre società patriarcali che mal-reagiscono ai processi molteplici di liberazione delle donne. Ma si può sempre scegliere se stare dalla parte del problema o dalla parte della soluzione.
La Ministra Josefa Idem, ha proposto recentemente ”alte sanzioni pecuniarie per tutte le pubblicità lesive dell’immagine della donna”. Pensi che sia una buona idea? Quali altre politiche proporresti?
Le sanzioni pecuniarie sono sempre un buon argomento – specie per chi maneggia così tanti soldi. Ci sono tante cose che si possono fare – la censura come si è visto non funziona. In primo luogo l’empowerment delle ragazze e delle donne, e poi progetti mirati ad una maschilità differente, che non sbava sulle veline, che non crede nella forza muscolare, che si interroga sui cambiamenti in atto nei rapporti di potere fra i generi e sulla loro costruzione sociale.
In Calabria vi è stato un recente femminicidio particolarmente cruento – alcuni lo hanno letto come un fenomeno che ha articolazioni anche etniche altri ritengono che un omicidio è un omicidio e il luogo dove avviene non ha alcuna importanza. Tu cosa pensi?
Sono vere entrambe le cose al 50% – da una parte è innegabile che l’uccisione di ogni donna abbia elementi comuni con l’uccisione di altre donne – che riguardano il patriarcato nelle sue varie forme. Dall’altra vi sono gli aspetti più legati appunto alle ‘varie forme’ ovvero alle dinamiche del luogo, un tema di cui mi sto occupando. Non possiamo pensare che le differenze etniche, culturali, geografiche siano importanti quando studiamo ad esempio la salute e non quando studiamo la violenza.
Puoi farmi un esempio?
C’è un villaggio indiano che frequento da quasi venti anni – dove ho avuto modo di misurare i cambiamenti che si succedono velocemente anche a causa del neoliberismo. Dall’ultimo viaggio sono rientrata sconvolta: una mia amica è stata bruciata viva – non sono riuscita a parlarne con nessuno/a dei miei colleghi/e qui. Ho sofferto molto – come ha potuto succedere una cosa simile ad una persona come lei , in un luogo pacifico come quello? Mentre ero lì ho capito in maniera chiara che non si può parlare di violenza sulle donne in maniera avulsa dal contesto, generalizzando il genere … Nel caso della mia amica ho scoperto, seppure ‘invisibile’ socialmente, il dilagare dell’uso di alcol fra i giovani maschi che è stato un elemento scatenante di quella tragedia e che sta diventando una sub-cultura importante, che sfugge alle regole del patriarcato locale. Se la nostra ricerca va nella direzione della prevenzione, e non si ferma alla semplice denuncia, allora è importante capire anche la varianza locale di questi fenomeni – il luogo, la cultura locale, la classe delle persone coinvolte: nel caso di Corigliano stupisce soprattutto l’età dell’assassino, oltre che quella della vittima. La Calabria è anche una storia di prevenzione mancata – possiamo dire che c’è qualche nesso tra l’uccisione di una adolescente da parte di un adolescente e il fatto che un centro antiviolenza come il Roberta Lanzino langue senza fondi …
Quest’anno il tuo corso di Studi di Genere era stato cancellato ma la lotta degli studenti e una raccolta di firme internazionale ha avuto successo e il corso è stato ripristinato. E’ il segno che qualcosa sta cambiando, in meglio?
Sono rimasta sorpresa dalla reazione delle studentesse che si sono mobilitate con determinazione – e dalla solidarietà espressa da colleghe in tutto il mondo. Mi hanno commossa le centinaia di mail da parte di ex studentesse che mi hanno detto quanto importante fosse stata per loro l’esperienza del corso sia a Rende che a Crotone dove ho insegnato per anni. Per la prima volta sentivano parlare di temi quali la violenza sessuale, pedofilia e incesto, prostituzione, anoressia, molestie … Ma anche il femminismo di ieri e quello di oggi, il fatto che siamo capaci di agire e reagire. Ora c’è più consapevolezza che questi corsi sono necessari – sia per le competenze specifiche, per la formazione di professionisti/e, sia per il cambiamento culturale che promuovono: gli studi di genere dovrebbero essere istituiti in ogni corso di laurea.