La fatica che incontrano le donne italiane per farsi posto nei luoghi di potere finora di solo appannaggio maschile o nei quali il gentil sesso poteva attestarsi solo se maschilizzava la propria personalità e professione.
In un talk show ben conosciuto condotto da Michele Santoro, il giornalista rivolgendosi alla ministra sua ospite le chiede: ’’Signor ministro o signora ministra, come vuole essere chiamata?’’
Questa battuta la dice tutta sulla fatica che incontrano le donne italiane per farsi posto nei luoghi di potere finora di solo appannaggio maschile o nei quali il gentil sesso (ma perché poi gentile?) poteva attestarsi solo se maschilizzava la propria personalità e professione.
Una bella differenza da quello che si legge oggi sui quotidiani a proposito della femminilizzazione degli appellativi accademici dei professori e docenti all’Università di Lipsia.
Indietro in Italia anche sui nomi? Oppure i nomi riflettono un atteggiamento androcentrico della nostra società, tuttora permanente?
L’abbiamo chiesto alla professoressa Cecilia Robustelli, docente di Linguistica Italiana all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica Italiana all’Università di Readinge, studiato e tenuto corsi in Inghilterra e Stati Uniti. Autrice di numerose pubblicazioni sulla sintassi storica, la grammatica italiana e il linguaggio di genere, dal 2000 collabora con l’Accademia della Crusca.
In uno dei suoi numerosi scritti la docente afferma ”Ciò che non si dice, non esiste.’’
L’oscuramento linguistico della figura professionale e istituzionale femminile ha come conseguenza la sua non-comunicazione e, in sostanza, la sua ‘negazione’.
E ancora in ”La rappresentazione delle donne attraverso il linguagggio” la professoressa aggiunge: ‘’In Italia numerosi studi, a partire dal lavoro ”Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini”, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo’’
Inoltre, in italiano come in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile (francese, spagnolo, tedesco, ecc.), la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.).
Frequentissimo è l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.’’
Ma sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile.
Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico?
Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono di tipo culturale.
I femminili quindi suonano male?
Direi che è solo questione di abitudine alle parole nuove, di stratificazioni linguistiche dure a morire, di stereotipi portati avanti dal femminismo storico per cui, per equipararsi al genere maschile, l’unica cosa da fare era maschilizzarsi.
La preferenza per l’uso del maschile, molto diffusa proprio fra le donne, riflette ancora l’esitazione ad accettare che certe figure professionali siano riconducibili a donne.
Nei paesi europei viene usato il femminile?
Sì, ed è anche regolamentato dalle istituzioni. Per fare qualche esempio, in Francia, in Austria, in Svizzera si usa normalmente il linguaggio ‘di genere’ anche negli atti ufficiali.
Qual è l’atteggiamento dell’accademia della Crusca con cui lei collabora?
L’ Accademia Crusca mi ha chiesto di scrivere un contributo per l’articolo del mese che si può trovare ancora in rete.
I termini femminili devono essere usati perché la lingua italiana li prevede e questo permette anche di dare una certa visibilità alle donne attraverso la lingua.
Gli uomini fanno fatica a chiamare le donne con il femminile, i giornalisti in primis. Come detto nell’introduzione all’intervista…
Non bisogna chiedere ad una donna se vuole essere chiamata mamma o babbo.
Per la presentazione della nuova donna al mondo usare un appellativo maschile è molto nocivo.
E’ questione anche di cittadinanza. Se le donne non possono essere chiamate, non esistono.
Anche le trasmissioni televisive fanno la loro parte invitando donne che fungono solo da spalla, ma quasi mai come ‘’esperte’’.
Molte donne in luoghi di potere e di informazione non vogliono che sia utilizzato l’appellativo femminile, come redattore, direttore di un giornale e non redattrice o direttore….
Le donne negli anni 70-60, per essere alla pari di un uomo, pensavano di doversi comportare come l’uomo. Anche queste sono incrostazioni devono essere eliminate e sono dure a morire. Una donna che svolge un ruolo nella società deve essere chiamata con il suo genere.