Se guardiamo l’Italia “con occhi di donna” (la Conferenza di Pechino, 1995, docet), ci accorgiamo che il principio delle pari opportunità e della non discriminazione di genere è molto formale ma ancora lontanamente fattuale.
In Italia, sulla strada di una sostanziale e piena cittadinanza femminile, ci sono stati e ci sono ancora numerosi “tappi”. La parità è spesso solo enunciata, la sua mancanza denunciata, la sua conquista mai rinunciata.
La scena istituzionale e politica, nell’aspetto, è cambiata, ma permane la riluttanza (ostilità) al cambiamento dell’universo femminile. Non vi è stata una metamorfosi ma una morfosi a metà: si è cambiato ciò che c’era da cambiare, ma la situazione è rimasta la stessa, mutatis mutandis.
In questo immutato quadro strutturale e culturale – dove non esistono condizioni endogene facilitanti, come invece, ad esempio, nei Paesi scandinavi – per avviare e consolidare i processi di cambiamento serve una “terapia d’urto”, con azioni positive, misure per eliminare le disparità di cui le donne, di fatto, sono oggetto.
Una delle soluzioni è quella delle “quote dei genere” (solo nel nostro Paese sono chiamate “rosa”, nel tipico svilente atteggiamento di ciò che è percepito come “solo femminile”, per trasformare una politica di “visibilità” in “risibilità”), che consiste nel prescrivere una percentuale di rappresentanza del genere sottorappresentato.
Con questa strategia, i meccanismi che impediscono una democrazia paritaria non sono rimossi, ma “disinnescati”, un passo comunque importante sul percorso per la completezza di un assetto democratico: senza una presenza reale e significativa delle donne, è impossibile avviare una trasformazione delle istituzioni.
Le quote elettorali possono essere imposte attraverso legge ordinaria o costituzionale oppure attraverso la volontà dei partiti, e si può intervenire sui seggi elettorali o stabilendo delle quote nelle candidature, nel primo caso decidendo preventivamente il numero dei seggi riservati, nel secondo creando delle condizioni elettorali che garantiscano una possibilità maggiore al genere sottorappresentato di essere eletto.
In Italia, prima con legge costituzionale 3/2001 che, sostituendo l’art. 117 Costituzione, dichiara esplicitamente “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.”, poi con legge costituzionale 1/2003 che, modificando l’art. 51 Costituzione – relativo all’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, aggiunge al primo comma il periodo “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”, si è cercato di consolidare l’obiettivo di una società giusta ed equa propugnato dall’art. 3 Costituzione.
Ma finché permangono inerzie culturali e istituzionali, gli squilibri di rappresentanza rimangono. Ne è un esempio la riforma elettorale approvata nel 2005 (L. 270), quando l’emendamento che proponeva «quote di genere», presentato dalla stessa maggioranza, fu respinto alla Camera (in sede di votazione, con scrutinio segreto, ottenne 452 voti a sfavore, contro solo 140 favorevoli).
Il cardine della democrazia è la partecipazione di tutte le cittadine e di tutti i cittadini alla vita delle istituzioni.
In Italia, alle elezioni amministrative, ha debuttato la legge che – nei Comuni con popolazione superiore a 5 mila abitanti – prevede la doppia preferenza di genere, cioè la possibilità di esprimere non esclusivamente una preferenza, come in passato, ma due, purché di genere diverso.
In Trentino-Alto Adige la legge elettorale per i Comuni è di competenza della Regione, mentre il consiglio provinciale ha potestà sulla legge elettorale provinciale.
In Trentino non è ancora stata introdotta la preferenza di genere nella legge e non ci sono margini di tempo per farlo per le vicine elezioni provinciali di ottobre: la prossima settimana in Commissione inizierà l’iter della parità di genere, in una gara tra chi discute e chi incute, dove non ci sono vincitrici e vincitori ma solo un’importante perdente, la democrazia.
Qualcosa si può fare, però, per far sentire la propria voce: sollecitare l’adozione spontanea – da parte dei partiti e dei movimenti politici che si presenteranno all’appuntamento autunnale – del codice di autoregolamentazione proposto dalla Commissione provinciale per le Pari Opportunità di Trento e sottoscritto da numerose Associazioni e Movimenti femminili; non votare chi si ostina a mantenere una democrazia monca, calpestando diritti per non perdere privilegi.
Serve il genere in politica per un nuovo genere di politica.