Telelavoro, telecommuting, lavoro a disanza, telework, ma alla fine è diventato non una nuova tipologia professionale ma un modo di gestire la propria attività utilizzando il computer, pc, mac, tablet o altro, a ma a distanza.
Alle origini di dol’s, 13 lunghissimi anni fa, venne fatta un’ intervista ad americane ed australiane, sul telelavoro che ancora in Italia non c’era ma che veniva visto come una frontiera delle nuove tecnologie che permettevano a chi voleva lavorare da casa di farlo conservando la operatività lavorativa di un impiegato, ma a distanza.
Dols fece anche sondaggio in occasione dello Smau 2000 che mostrava il gradimento delle donne per ciò che riguardava quelle che allora erano le nuove tecnologie.
In questi anni poi si è tanto parlato di telelavoro, telecommuting, lavoro a disanza, telework, ma alla fine è diventato non una nuova tipologia professionale ma un modo di gestire la propria attività utilizzando il computer, pc, mac, tablet o altro, a ma a distanza.
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Cercando notizie sul settore mi sono imbattuta in quest’articolo dell’università di Padova molto esaustivo e che quindi riporto.
Il telelavoro al tempo di Facebook
Il telelavoro era considerato, agli inizi degli anni 2000, una conseguenza “inevitabile” della diffusione delle nuove tecnologie. Che senso ha recarsi in ufficio se si possono svolgere gli stessi compiti stando comodamente a casa con il pc e internet? Il quotidiano La Stampa, in una inchiesta uscita il 25 febbraio, ci riporta alla realtà. Il telelavoro, soprattutto in Italia, non è mai decollato. Nel 2007 solo il 3,9% dei lavoratori italiani poteva essere considerato un telelavoratore e oggi, a cinque anni di distanza, lo scenario non è cambiato molto, almento guardando ai risultati di uno studio presentato lo scorso novembre dal Politecnico di Milano: infatti solo il 5% degli italiani svolge un’attività professionale a distanza.
I commentatori intervistati dal quotidiano fanno ricadere questo insuccesso essenzialmente sull’arretratezza culturale del nostro paese: leggi mancanti – almeno fino al varo di un’agenda digitale ancora tutta da attuare – mentalità arcaica, organizzazione industriale basata sulla piccola impresa, ecc.
Può darsi, e certamente sono questioni che hanno il loro peso, così come la persistenza in molte situazioni di forme di organizzazione del lavoro tutt’ora dipendenti dal controllo di processo, passo passo, da parte dei superiori; tuttavia, esistono altre importanti ragioni che spiegano il mancato decollo del telelavoro, così come la sua difficile adattabilità ad alcuni contesti lavorativi.
La prima è legata all’innovazione. Numerosi studi scientifici hanno dimostrato quanto la generazione dell’innovazione sia un fenomeno “locale”, legato all’incontro e all’interazione tra persone. C’è un legame molto profondo tra geografia, innovazione e sviluppo economico. Mark Zuckerberg ha maturato la propria idea di Facebook a Harvard (tra l’altro elaborando un’intuizione di altri) ma ha deciso di andare in Silicon Valley per poterla sviluppare pienamente, perché solo in California avrebbe avuto la possibilità di collaborare (offline) con figure professionali altamente qualificate (ingegneri, programmatori, esperti di marketing). Non sorprende più di tanto, da questo punto di vista, la recente decisione di Marissa Meyer, amministratore delegato di Yahoo!, di richiamare tutti i propri lavoratori in ufficio, rinunciando al programma di telelavoro. I compiti più avanzati e creativi, che si fondano su un “lavoro di squadra” costante e nei quali ricerca e sviluppo sono in primo piano, difficilmente si prestano al telelavoro. L’innovazione non si fa (solo) via Skype. Ha bisogno (ancora) di socialità alla vecchia maniera. Sarà anche per questo che, forse, prendiamo sempre più aerei e treni nonostante i nostri iphone?
La seconda riguarda le nuove tecnologie e il loro rapporto con le dinamiche di gruppo dei luoghi di lavoro. Negli ultimi anni le tecnologie Ict hanno invaso la nostra vita demolendo definitivamente ogni confine tra casa e ufficio. In fondo telelavoriamo tutti, nel senso che il nostro lavoro non è più confinato in un orario rigido e predefinito ma si organizza in un tempo più dilatato. Fino a raggiungere anche elementi patologici, come ha ben evidenziato Sherry Turkle nel suo libro Insieme ma soli, dove descrive la crescente interazione online (via Facebook, Twitter, email) e, allo stesso tempo, l’acuirsi della solitudine. Certo la grande promessa del telelavoro, almeno sulla carta, era la maggiore flessibilità e libertà. Il rovescio della medaglia è che tende ad allontanare dall’azienda (piccola e grande che sia) e dal luogo dove si prendono le decisioni. Se i tuoi colleghi non ti vedono, per quanto tu faccia bene il tuo lavoro, è un po’ come se non ci fossi. Risultato? Non fai carriera.
La terza riguarda il contenuto del lavoro che è oggi sempre più autonomo e “imprenditoriale”, nel senso che conta la capacità individuale di affrontare un contesto lavorativo in costante cambiamento. Niente a che vedere con il lavoro parcellizzato tipico del fordismo, dove stabilità e ripetizione erano le parole chiave. È evidente che è più difficile per un’azienda poter far svolgere da remoto un lavoro che non è più standard e che quindi non può essere facilmente misurato, a meno che non si attuino modifiche adeguate nell’organizzazione del lavoro stesso, come la sua strutturazione, e la corrispondente valutazione, “per obiettivi”.
Davvero efficace, il telelavoro sembra esserlo in ambiti precisi: verso la fascia bassa delle mansioni, dove ci troviamo in presenza di compiti svolti a distanza, standardizzati e quantificabili, che non richiedono collaborazione – tipicamente, call-center e assistenza di base alla clintela; verso l’alto, dove le mansioni svolte permettono una grande autonomia da parte del lavoratore e la possibilità di una organizzazione su obiettivi – tipicamente, funzioni di livello medio-alto svolte da singoli o da piccoli gruppi coordinati da una persona.
Ancora, il telelavoro viene utilizzato con successo in contesti lavorativi avanzati dove c’è necessità di conciliazione casa-lavoro, come nei casi in cui si devono gestire con flessibilità congedi di maternità e paternità mantenendo all’interno del processo lavorativo la persona in questione durante il periodo di assenza e consentendone poi con gradualità il pieno rientro sul posto, senza cesure e perdita di competenze.
Il telelvoro più che un fattore di innovazione universale è da considerarsi una strategia mirata; non è detto che possa essere applicato ovunque, in alcuni casi serve e in altri no, e richiede profonde ristrutturazioni oragnizzative e della catena decisionale per essere gestito efficacemente.
Forse per l’Italia non è tanto grave, in generale, aver mancato quest’appuntamento storico, quanto non riuscire più a creare le condizioni per la generazione di nuovo lavoro.
Marco Bettiol
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