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Studi di genere – Intervista alla filosofa Vera Tripodi
Da poco ho avuto modo di conoscere Vera Tripodi e subito è nata un’affinità intellettiva caratterizzata soprattutto da un interesse comune per le differenze di genere e le disparità di genere.
Vera svolge la sua attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino e il LabOnt (Laboratorio di Ontologia diretto da Maurizio Ferraris). Inoltre è tra i fondatori di APhEx, dal 2010 il primo portale italiano di filosofia analitica, e membro della sua Redazione.
Laureata in filosofia presso l’Università La Sapienza di Roma, dove ha anche conseguito il dottorato, si avvicina agli studi di genere e alla filosofia della biologia durante le sue esperienze come Visiting Scholar alla Columbia University di New York. In seguito, lavora come Post-Doctoral Research Fellow presso il Centro di Studi di Genere (STK) dell’Università di Oslo e poi presso il centro di ricerca Logos dell’Università di Barcellona.
Che cosa s’intende per “Filosofia della sessualità”, titolo del tuo libro?
All’interno della filosofia di orientamento analitico, con filosofia della sessualità si intende quel settore della filosofia che tenta di rispondere a domande come: è possibile trovare un fondamento oggettivo delle categorie sessuali?; la differenza di generi è esclusivamente biologica o culturale, vale a dire la ripartizione tra uomo\donna esiste di fatto nella realtà? I sessi sono davvero solo due e, se così, a che cosa si riduce – da un punto di vista biologico – la differenza tra maschio e femmina? L’orientamento sessuale e il piacere sessuale sono qualità naturali?
Si tratta di temi che hanno da sempre suscitato un grande interesse tra i filosofi e le filosofie provenienti anche da ambiti molto diversi.
Oggi nella filosofia anglo-americana di orientamento analitico alla quale io faccio riferimento, lo studio filosofico sulla sessualità vuole spiegare i generi e i sessi non esclusivamente in termini politici. Il tentativo è dunque quello di considerare anche quanto le scienze (in particolare la biologia) hanno da dirci in merito alla sessualità; di analizzare la questione del genere tenendo presente anche altre categorie sociali come quella di razza e i più recenti sviluppi della filosofia del linguaggio rispetto al dibattito sulla pornografia. Inoltre, si presta molta attenzione alle questioni bioetiche.
In virtù della tua esperienza, come vedi il mondo accademico nei confronti delle donne?
Sono convinta che qualche passo avanti sia stato fatto rispetto al passato, ma credo che molto ancora possa e debba essere fatto per la parità di genere in accademia. Secondo le statiche a nostra disposizione, le donne non sono sufficientemente rappresentate in accademia.
Nelle università, circa l’80 % delle posizioni a tempo indeterminato (ricercatore, professore associato e ordinario) sono ricoperte da uomini. I dati riguardanti Stati Uniti d’America, UK, Canada, Australia e Nuova Zelanda sono consultabili online: http://www.philosophicalgourmet.com/;http://philpapers.org/surveys/. Rispetto al mio ambito di ricerca, la domanda che ci si pone non è tanto perché ci siano così poche donne filosofe. Piuttosto, perché le donne siano poco presenti nei dipartimenti di filosofia a ricoprire certi ruoli; perché, quando si assume un docente o un ricercatore, a parità di curriculum, si preferisca un uomo; perché in media una donna impieghi più tempo a “fare carriera” o a pubblicare su riviste prestigiose e debba sempre dimostrare con estrema fatica (e più di quanto è richiesto a un uomo) di essere davvero brava.
Ad alimentare la disparità di genere e l’immagine delle filosofe come meno competenti dei filosofi concorrono anche: la scarsa presenza di ricercatrici e professoresse da prendere come “modelli” per le studentesse, il fatto che a convegni vengono prevalentemente invitati come esperti più uomini che donne o che nei programmi d’esame compaiono pochissimi testi o articoli scritti da donne. Si sono tenute due importanti conferenze su questi temi: una presso la Cardiff University (“Under-Represented Groups in Philosophy, http://www.cf.ac.uk/encap/newsandevents/events/conferences/groups.html) nel novembre del 2010, un’altra presso la Edinburgh University (http://www.ppls.ed.ac.uk/events/view/ewpg-workshop-2010-11) nel gennaio del 2011. È nato inoltre un blog [What is it like to be a woman in philosophy?] in cui molte donne (ma anche diversi uomini) riportano le proprie esperienze e le difficoltà di lavorare “in quanto donne” nei dipartimenti di filosofia. Insomma, la filosofia è considerata ancora una disciplina maschile e lo stereotipo della donna come per natura meno adatta al ragionamento rigoroso è tuttora diffuso.
E nel settore della filosofia, qual è l’atteggiamento dei tuoi colleghi nei confronti del settore degli studi di genere?
Specie in Italia, c’è ancora molta diffidenza. Questo sospetto diffuso verso gli studi di genere é legato alla convinzione che le questioni di genere interessino solo alle donne e propriamente non siano meritevoli di una rigorosa indagine filosofica. All’estero (mi riferisco ai paesi occidentali), la situazione è in parte diversa. Questa differenza sta anche nel fatto che di genere se ne occupano pure gli uomini. In Italia, invece quelli di genere sono studi condotti quasi esclusivamente da donne.
All’Estero è diversa la situazione in cui vertono le donne rispetto all’Italia, secondo te?
Rispetto al lavoro in accademia, sì, credo in parte lo sia. Da questo punto di vista, il mio periodo di lavoro in Norvegia presso l’Università di Oslo è stato davvero significativo. Ciò che ho apprezzato di più di quel periodo è stata la possibilità di lavorare in un contesto “women-friendly” dove la parità di genere è davvero una realtà. Oltre a rendere i miei rapporti di lavoro con i miei colleghi più sereni, il contesto ha inciso positivamente sulla mia insicurezza e mi ha reso anche più produttiva.
Certo, ci sono poi purtroppo realtà in cui la situazione per le donne nelle università è peggiore di quella italiana.
Quali prospettive future pensi che ci possano essere per le donne?
Nuove prospettive per donne, almeno io credo, si possono aprire e realizzare solo se si coopera insieme agli uomini. Inoltre, tutto ciò non può non passare se non attraverso specifiche politiche sociali.
Secondo te, quali sono i canali e le modalità per arrivare al riconoscimento e alla valorizzazione del potenziale femminile?
Sono convinta però si debba lavorare su più fronti. Uno dei più importanti è quello di promuovere una seria e serena riflessione sugli stereotipi di genere, non solo quelli degli uomini sulle donne ma anche di quelli delle donne sulle donne. Accanto a ciò, come accennavo sopra, c’è bisogno di adeguate politiche sociali e campagne di sensibilizzazione. Di fatto, questa è la strategia adottata nei paesi scandinavi dove si è puntato sul garantire per legge una rappresentanza “mista” (nei consigli di amministrazione di aziende pubbliche e private, in parlamento, nei dipartimenti universitari o nei convegni e così via) e al tempo stesso si sono messe in atto politiche volte a tutelare maternità e paternità o garantire la disponibilità e l’accessibilità a servizi come quelli per l’infanzia. Nello specifico del mio campo di ricerca, diversi dipartimenti di filosofia hanno aderito a campagne di sensibilizzazione come quella della “Gendered Conference Campaign” volte a segnalare conferenze, convegni e seminari che non vedono donne tra gli invitati. Inoltre, chi lavora nelle università dovrebbe sforzarsi di inserire nei programmi d’esame anche articoli e libri di donne. Credo che campagne come queste siano importanti e necessarie per produrre un serio cambio di mentalità in accademia.
1 commento
Bell’articolo, ben scritto. Mette in luce alcune problematiche che in altri campi sembrano già sorpassati, almeno nella facoltà di Biotecnologie a Torino. Purtroppo, finché una laureata in filosofia preferirà firmarsi come “Dr.” invece di “Dr.ssa” resteremo fermi all’era del Pleistocene