Altri lo hanno fatto: segno che si può fare!
Quante di voi hanno pensato almeno una volta nella vita di cambiare Paese, per emigrare lontano da questa Italia così conservatrice e refrattaria ai cambiamenti?
Quante di voi hanno fantasticato e pensato che magari oltralpe, come figurarsi nei tanto decantati Paesi Scandinavi, si viva meglio, in virtù di una politica e un lavoro più women friendly?
Personalmente ho pensato tante volte ad una capatina fuori dal confine, ma poi appartengo, a ragione o a torto, a quella categoria di persone che per quanto curiose e affamate di conoscere il mondo, nuove realtà e culture, non è abituata a gettare la spugna così facilmente o per lo meno non prima di aver lottato e provato con tutte le forze a cambiare la realtà che vivo e nella quale vivo.
Leggevo proprio nei giorni scorsi un articolo interessante di Marco Boemi sul blog “27ora” del Corriere della Sera (http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-svezia-puo-ancora-servirci-da-modello/) relativo alla Svezia, ovvero al Paese Europeo tanto decantato ed elogiato per la sua politica a favore delle donne.
Boemi, autore del libro “Diversamente Svezia, un Paese che guarda allo specchio”, traccia un profilo critico del Paese Scandinavo evidenziandone anche quei lati oscuri che solitamente rimangono sommersi e poco conosciuti.
Infatti, sostiene Boemi, sebbene la Svezia sia avanti rispetto all’Italia in termini di welfare e attenzione ai diritti delle donne, sta di fatto che anche lì si è ancora lontani dalla parità di genere, soprattutto in certi settori (dirigenza di partiti, amministrazione pubblica, università…).
Pur apprezzando molto una chiave di lettura diversa, ritengo che rimanga comunque valido il dato oggettivo che i Paesi Scandinavi, fra cui anche la Svezia, siano fra i Paesi più attenti e attivi sia nei confronti della parità di genere, che del welfare e dell’assistenza all’infanzia, tutti aspetti fortemente legati fra loro.
Mentre in Italia le madri hanno diritto di maternità fino a cinque mesi retribuito all’80%, nel caso dei Pasi Scandinavi i mesi di congedo diventano diciotto (più di tre volte tanto!). In Svezia è stato introdotto anche il congedo di paternità e questo non solo per i più che comprensibili e ovvi vantaggi familiari ad esso legati, ma anche col preciso intento di contrastare il rischio di discriminazione da parte dei datori di lavoro nei confronti delle donne soprattutto nel settore privato (Maurizio Ferreira, “il fattore D”).
I Paesi Scandinavi, pilotati dalla Finlandia, sono stati i primi ad introdurre anche l’assistenza all’infanzia da parte dello Stato, che implica, ad esempio, costi contenuti per gli asili nido…costo che varia in base al reddito e che in Svezia, ad esempio, prevede per legge un tetto massimo del 3%.
Sempre a proposito di asili, esiste solo in Scandinavia un servizio di ventiquattro ore su ventiquattro di apertura degli asili, per agevolare e supportare famiglie che per varie e diverse esigenze necessitano di supporto per la cura e gestione dei figli anche oltre l’orario canonico.
Con questo non voglio certo asserire né che i Paesi Scandinavi siano perfetti (ritengo che non esista un Paese perfetto come non esiste una famiglia perfetta!) né tanto meno che siano gli unici attivi in materia di welfare, sostegno alla famiglia e parità di genere.
L’Olanda, ad esempio, ha introdotto i congedi part-time e ha fatto del part-time un fulcro dell’occupazione che ad oggi raggiunge i livelli dei Paesi Scandinavi e ad usufruire del part-time sono anche gli uomini, a fronte di compagne o mogli che lavorano full time.
Negli ultimi anni la Francia ha attivato manovre politiche importanti per favorire la conciliazione lavoro-figli, dando la possibilità alle famiglie di scegliere liberamente fra diverse forme di assistenza all’infanzia. In alternativa agli asili e alle scuole materne pubbliche, che lo Stato si è impegnato ad aumentare per andare incontro alle sempre maggiori richieste, le famiglie hanno la possibilità, ad esempio, di far accudire i figli a domicilio con personale qualificato e accreditato al servizio pubblico e con un sostegno economico da parte dello Stato.
La Gran Bretagna non è da meno: con il governo Blair e poi Brown, è stata attivata una massiccia campagna per contrastare la povertà infantile. Fra le varie manovre attuate in questa direzione, merita di essere ricordata la “National Child Strategy”, un piano quinquennale straordinario lanciato nel 1998 teso a potenziare i servizi per l’infanzia puntando su tre requisiti: disponibilità, accessibilità e qualità.
Dal 2001 il governo inglese ha assegnato all’autorità governativa dell’Office for Standards in Education (OFSTED) la responsabilità del monitoraggio e della valutazione nel settore dell’istruzione (Maurizio Ferrera, “Fattore D”).
Gli esempi potrebbero essere ancora tanti e questo non certo per sostenere che esiste un Paese perfetto o in assoluto migliore rispetto agli altri, ma semmai per evidenziare come in Europa, altri Paesi, e non solo quelli Scandinavi, si siano attivati e si stiano attivando in materia di welfare, sostegno alle famiglie e parità di genere. Voglio prendere questo dato oggettivo sia come un segno positivo – significa che qualcosa può essere davvero fatto e quindi cambiato – sia come una speranza che anche l’Italia, partendo dalla presa di consapevolezza della reale e forte necessità sociale ed economica del Paese, possa iniziare a muovere qualche passo in avanti proprio prendendo spunto proprio dalle realtà vicine europee.