di Cristina Obber
Licata e’ stata stuprata una ragazzina di 13 anni.
A farle violenza sembrerebbe siano stati due conoscenti, di 17 e 23, che le hanno offerto un passaggio.
Leggo e ripenso alle storie che ho raccolto nel libro “Non lo faccio piu’“.
Penso a Veronica, stuprata dai suoi amici dell’universita’, alla quindicenne stuprata da Marco, che le ha dato un passaggio mentre tornava da scuola.
Penso a Marco, preoccupato solo di dichiararsi innocente dicendo che lei era consenziente, in accordo con l’avvocato, e sostenuto dalla madre.
Marco che invece sta scontando sei anni. Marco che ammette che senza il carcere non avrebbe capito fino in fondo il male compiuto: Mi hanno fermato in tempo, avrei potuto fare di peggio. E se non mi fossi iscritto al trattamento non avrei imparato a gestire la rabbia , e io la rabbia non l’ho mai saputa gestire. Invece bisogna capire, e la privazione della libertà è essenziale. Io litigo con altri detenuti sull’indulto perché secondo me la punizione ci vuole, ce la meritiamo.
Di fronte alla violenza non si chiede la “punizione”, come la chiama Marco, per sadismo.
La si chiede per giustizia, come per qualsiasi altro reato.
Si richiede un’assunzione di responsabilità necessaria e indispensabile, a qualsiasi età.
Si chiede di mettere al centro la vittima.
Ricordiamoci che cos’è uno stupro.
Cosi’ Veronica racconta lo stupro subito a 21 anni, dopo una festa: … mi hanno portato a casa e mi hanno stesa all’ingresso, e facevano a gara a chi faceva prima a mettersi il preservativo.
Dopo lo stupro nell’ingresso Veronica viene stuprata ancora, dal capobranco, rimasto a segnare il territorio. Mi ero svegliata a notte fonda stesa in bagno, con tre preservativi di fianco. Sentivo Tommaso che mi raccoglieva per i polsi e mi prendeva in braccio per portarmi di sopra, in camera da letto. Mi chiedevo -Perché la mia pelle tocca la sua pelle? Perché i miei vestiti non si stanno toccando con i suoi? E poi quella sensazione. Sono passati un sacco di anni ma questa sensazione non me la dimenticherò mai finchè campo. La sensazione di una penetrazione secca, e dolorosa, perché io sentivo, che mentre mi penetrava, senza preservativo, io sanguinavo. Sentivo che mi lacerava, pensavo –Questo mi sta lacerando-. Ma non riuscivo a muovermi.
Questo è uno stupro. E’ lacerazione, dolore e sangue.
E’ incredulità. Smarrimento. Mi sono seduta sul suo divano. Era blu, come le lenzuola.Sono stata lì un sacco. Poi finalmente sono entrata in doccia. Ricordo l’acqua calda che lavava via le tracce di quella notte orribile dalla mia pelle. Tenevo gli occhi chiusi, il viso verso il getto. Soltanto sotto quell’acqua ho capito la ferocia di quella violenza che le pasticche avevano perlomeno attutito. Un calore più consistente dell’acqua mi scendeva tra le gambe. Ho guardato in basso. Perdevo sangue, tantissimo, e denso. Il piatto della doccia era rosso, e quel rosso era mio.
E poi è il senso di colpa che ti rimane addosso, per quello che avresti potuto dire e non dire, fare e non fare, di fronte a una società che ti punta il dito addosso da quando nasci, finchè il dito te lo punti anche da sola: La cosa strana è che io continuo a vergognarmi di me e non di Mattia, e non di loro. Non mi sconvolge quello che hanno fatto gli altri, mi sconvolge quello che ho fatto e quello che non ho fatto io. Perché non denunci? A me viene da ridere quando sento dire così. Sono tutti bravi a parole. Parlano dello stupro come una denuncia facile da fare. Qual è la prima cosa che fa una che ha subito violenza? Prende, da sola, e corre, e va dai carabinieri. E’ capitato ad altre, sono andate dai carabinieri, ma lo puoi fare se quelli non li conosci. Se non li conosci, l’hai subita e basta. Quando ti capita che la violenza te la costruisci anche tu, quando interagisci con le persone che poi ti violano, quando ti capita di vivere con loro prima, è molto diverso. Quando ti capita che a violentarti è un tuo familiare, o un tuo amico, o tuo marito, è un’altra storia.
E poi arriva la fatica di ricostruirsi: Avevo smesso di truccarmi, di portare i tacchi, la gonna. Tenevo i capelli legati. Non andavo più nei centri commerciali, nei bar. Avevo paura degli spazi aperti. Andavo a lezione solo se avevo un’amica alla mia destra e una alla mia sinistra, perché avevo paura che qualcuno mi toccasse. Mi dava fastidio anche un abbraccio. Poi sono diventata un mostro.
Chi ha subito violenza deve vedersi riconoscere socialmente il ruolo di vittima, solo così può iniziare a ricostruirsi con dignità senza sensi di colpa.
Chi ha agito violenza deve coprendere la gravità del crimine compiuto.
Chi gli e’ vicino deve accompagnarlo in un percorso responsabile di consapevolezza, che ha un prezzo, un prezzo giusto per risarcire un danno causato.
La violenza e’ una scelta.
Una scelta comporta una responsabilita’, soggettiva e collettiva.
Pensiamo a questa ragazzina di Licata, a come si chiamera’, a cosa respirera’ in se’ e intorno a se’;e speriamo che la sua comunita’ le si stringa intorno, con maggiore affetto ed onesta’ di quanto abbiamo visto altrove.