di Lucina di Meco da Little Light Lab
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Secondo l’ultimo studio dell’Economic and Social Research Council (ESRC) riportato dal Sunday Times questa settimana, nel Regno Unito sono le donne che continuano a svolgere 70% del lavoro domestico, anche se la maggior parte di loro lavora a tempo completo e un terzo guadagna più del proprio compagno.
Le percentuali sulla divisione del lavoro non ci dovrebbero stupire, perché seppure l’Inghilterra dimostra non essere quel paradiso dei uguaglianza che alcuni immaginavano, in Italia le cose vanno ancora peggio. Secondo indagini Istat del 2010, analizzate da Daniela Del Boca in “Valorizzare le Donne Conviene”, il 76% del lavoro domestico ricade sulle spalle delle italiane, che spendono in media 5 ore e venti minuti al giorno in queste attività (contro 1 ora e 35 minuti dei loro compagni: la percentuale più bassa d’Europa).
Perché?
L’interpretazione tradizionale di questo fenomeno è legata alla differenza tra gli stipendi dei coniugi: le donne guadagnano in genere meno dei loro compagni, quindi il loro potere di negoziazione all’interno della coppia sarebbe inferiore e si troverebbero quindi a dover compensare il gap salariale con lo svolgimento di compiti supplementari rispetto ai loro compagni.
A quanto sembrano suggerire i dati dell’ESRC le cose non sarebbero cosi semplici, perché anche quando guadagnano più degli uomini, le donne continuerebbero a farsi carico in modo prevalente dei compiti domestici. Più precisamente, secondo numerosi studi realizzati negli Stati Uniti ( magistralmente analizzati da Cordelia Fine in “Maschi = femmine. Contro i pregiudizi sulla differenza tra i sessi”), la disuguaglianza nella divisione dei compiti domestici si riduce (a favore delle donne) in modo proporzionale alla riduzione del gap salariale tra i partners, ma solo quando è l’uomo a guadagnare più della donna. Quando è lei a guadagnare di più, le ore che dedica al lavoro domestico crescono in modo proporzionale al gap salariale tra i due.
I sociologi americani definiscono questo fenomeno come “gender deviance neutralization”: le donne, per neutralizzare la devianza dalle norme tradizionali di genere e alleviare la tensione generata nella coppia da tale devianza, si dedicherebbero quindi ancora maggiormente ai compiti domestici per cercare di recuperare il ruolo di “brave mogli”.
Esistono anche interpretazioni più fantasiose e pseudo-scientifiche di questo fenomeno. Secondo John Gray, autore del bestseller Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, il lavoro domestico farebbe biologicamente bene alle donne perché stimolerebbe l’ aumento del livello di ossitocina, l’ormone che regola il ciclo mestruale e sarebbe responsabile di innamoramento, autostima e empatia. Secondo Gray, quindi, le donne che lavorano fuori casa in ruoli tradizionalmente maschili sarebbero naturalmente portate a dedicare molte ore allo svolgimento delle attività domestiche, al fine di recuperare il livello di ossitona perso durante il giorno e ritrovare quindi il benessere fisico e psicologico. Inutile dire che queste affermazioni non solo non hanno nessuna base scientifica, ma sono contraddette dal buon senso e dall’esperienza. Anche senza analisi di laboratorio, qualsiasi donna che abbia stirato una camicia o lavato due piastrelle di pavimento si sarà accorta che autostima e empatia (in particolare nei confronti del compagno seduto davanti alla televisione) non aumentano grazie allo svolgimento di questi compiti, anzi.
Comunque sia, una cosa è certa: nonostante l’indipendenza economica rappresenti una componente necessaria nel cammino all’empowerment femminile, non può da sola colmare disuguaglianze che hanno le loro radici nella cultura delle relazioni di genere e hanno conseguenze non solo sulla vita delle donne, ma dell’intera società.
Servono quindi politiche pubbliche che aiutino la società a mettersi in cammino verso l’uguaglianza di genere. Laddove esistono, infatti, politiche che favoriscono una divisione più equa dei compiti nella coppia, per esempio la licenza di paternità obbligatoria, come in Svezia, le donne lavorano meno ore a casa e, con buona pace di Gray, si dichiarano più felici che, per esempio, in Italia. Laddove ci sono strutture pubbliche di qualità per l’attenzione ai bambini, poi, come in Francia, le donne non solo sono più produttive, ma fanno più figli.
Ancora una volta, insomma, non possiamo lasciare fare solo alla mano invisibile del mercato, ma dobbiamo trovare soluzioni politiche e sociali alla disuguaglianza di genere dentro e fuori dalle mura domestiche. Azioni di questo tipo beneficerebbero non solo le donne (che, rappresentando meta della popolazione, dovrebbero pur sempre essere un gruppo d’interesse non trascurabile), ma l’intera società, rendendola più produttiva e più fertile.