di Domenico Asaro
Chi parte, raramente torna. Storia di una migrazione interna che non fa bene al Sud
Una tendenza, un fatto di costume, un’aspirazione intellettuale,un bisogno di evasione. La verità ha molte facce, talvolta contraddittorie. Lo spunto di questa premessa è l’anno accademico alle porte.
Il fatto la costante migrazione di studenti meridionali nelle città dell’Italia continentale: da Firenze in sù seguendo il sinuoso percorso degli Appennini. Pochi ancora i giovani della Bassa Italia, come una volta veniva chiamato il Mezzogiorno, che lasciano il Paese per iniziare un percorso accademico oltre la cintura delle Alpi. Una migrazione dicevamo. Sì, uno spostamento massiccio di ragazzi che da ormai una decina di anni (i primi segnali del fenomeno sono stati registrati alla fine degli anni novanta mentre la Prima Repubblica si sgretolava) lasciano la propria regione per iniziare una ‘new life’ a Firenze, Parma, Bologna,Piacenza molti a Milano meno a Torino.
Cos’è è successo in questi dieci anni da indurre, con la compiacenza delle famiglie, i diplomati meridionali a lasciare case e genitori e a ricomporre nuclei sociali in altre città. L’aspetto della qualità didattica, apparentemente prioritario, non è il vero o il solo motivo che alimenta lo spostamento. Rileviamo che spesso chi lascia Bari o Catania o Catanzaro individua un percorso didattico che avrebbe potuto seguire nella propria regione. Allora c’è altro. C’è voglia di evasione, c’è voglia di cambiamento, c’è il desiderio forte di toccare con mano e vivere una realta diversa dalla propria. Una realtà letta, raccontata dagli amici milanesi in vacanza, assorbita tramite internet.
Forse c’è voglia di confronto, ma soprattutto di lasciare la propria città percepita come provinciale e soffocante per perdersi nella ‘metropoli’ e nella morbida provincia della Bassa ma non troppo lontani dal centro di gravità permanente. E’ un’esigenza e come tale va valutata.
Ma con ricadute economiche e culturali preoccupanti. Innanzitutto un costante flusso di ricchezza che dal sud muove costantemente verso le città,g ià benestanti, del nord Italia senza apparente ritorno. Ma – e lo ritengo ancora più deleterio per la crescita del Mezzogiorno – l’esportazione di ricchezze intellettuali e talenti creativi che dopo anni trascorsi lontano da casa, con amicizie nuove e prospettive di lavoro e carriera diversi, difficilmente valutano un viaggio di ritorno se non per fare le vacanze. E’ quest’ultimo l’aspetto che ha maggiori ricadute sull’economia complessiva del sud come accennavamo prima.E’ un progressivo impoverimento,una costante erosione di opportunità che non aiuta il meridione nel suo difficile tentativo di crescita.
C’è anche la complicità delle famiglie che, nell’illusione di offrire ai figli un’educazione scolastica migliore, cedono senza neppure battagliare o capire le ragioni vere. Cosa fare? E’ assolutamente -ed anche in questo caso prioritario – un cambio di passo per fermare l’emoraggia che in termini concreti significa alimentare ancora di più il già evidente ed ampio distacco culturale tra nord e sud del Paese. Come fare?offrendo incentivi a chi decide di studiare in un’università del Sud,offendo voucher di formazione all’estero diversi dall’Erasmus, creando una rete virtuosa tra le buone università meridionali, mettendo subito fin dal primo anno i giovani in contatto con le aziende per creare un percorso concreto e fattibile di avvicinamento al mondo del lavoro.
E’ un’esigenza oltre che un obbligo morale. Nei confronti di chi al Sud vive e lavora. Ma soprattutto che non fa bene non solo al Sud ma a tutta l’Italia, con la conseguente perdita di creatività ed ingegno dell’altra metà della nazione.