Cecilia Mazzeo: “Ho trovato la colla che aggiusta le cose!”
di Matteo Selleri da Tipitosti
“Mi sento molto tosta pur nella fragilità fisica, perché ogni volta che sfioro l’abisso scopro sempre la risalita verso la luce. Ho una lanterna appesa dentro. Ha una pila non umana che si accende quando le tempeste creano cortocircuito. A quella lanterna io dico: grazie”.
E così che si vede Cecilia Mazzeo, bolognese, 37 anni, affetta da endometriosi, malattia invalidante, che nella scrittura – è stato pubblicato da poco Matilda con la A (Cicogna editore, Bologna) – ha trovato ”la colla che aggiusta le cose”.
“Fin da bambina – racconta – sono sempre stata un’”anatomopatologa” delle emozioni.
Di recente ha scritto un libro.
Perché Matilda con la A?
Perché Matilda non è una Matilde qualsiasi. In quella A finale si nasconde l’intero percorso della narrazione. Quella A è un microcosmo, un giardino interiore. E’ il significato e il significante, il senso di tutto. Viviamo in un mondo che corre, che brucia i tempi. Un mondo frettoloso e superficiale di mode e velleità leggere. Un mondo che non ha tempo e voglia di ascoltare e capire. Nella A finale di Matilda c’è quindi una richiesta, una specie di urgenza emotiva: ascoltami, siediti, stai qui con me. Quella A è come fosse una panchina che invita alla sosta, al guardarsi negli occhi, alla comprensione profonda, all’empatia, al fare attenzione, alla memoria.
Qual è il messaggio?
Scardinare i luoghi comuni, le barriere generazionali, razziali, sociali, culturali, religiose. Rompere le maschere delle ideologie, i muri che separano i cuori. Togliere i titoli davanti ai nomi: avvocato, ingegnere, dottore, architetto. Amarsi tra anime, essenze, nuclei di luce nella propria verità e consapevolezza.
Soffri di una patologia invalidante e poco conosciuta, l’endometriosi: cosa hai provato quando ti hanno diagnosticato che avresti vissuto con questo compagno di viaggio?
La diagnosi precisa è arrivata all’età di 19 anni. È passato tanto tempo. Ho un solo ricordo netto: il terrore di rischiare di non diventare madre. Di fronte alla diagnosi ho pensato solo a questo: “Io devo, voglio essere madre perché mi sento madre da sempre.” In quel momento non ho pensato al dolore, ai dolori che sarebbero venuti, alla cronicità della malattia. Ho pensato che volevo vedere la mia pancia gonfiarsi ed esplodere di vita, non di malattia. Mi sono sentita minacciata nella sacralità dell’essere donna e nel diritto biologico ed emotivo della procreazione. L’ho vissuta come un aut aut, una pistola puntata alla tempia, un imperativo categorico: corri, non hai tempo!
Quanto è stato faticoso accettare questa situazione?
È stato molto faticoso perché mi ha “tagliato le gambe”. Ho dovuto cominciare a correre in senso contrario, ho dovuto invertire la rotta, il senso di marcia con l’unico scopo di diventare madre, di non perdere tempo. Ho lasciato l’università. Non ho viaggiato, non mi sono divertita, non ho avuto l’adolescenza canonica con tutti i suoi colori e le sue temperature. Ho dovuto mettermi da parte per covare qualcosa di più grande. Non è facile scegliere con tanta consapevolezza a 19 anni, mettere a fuoco con precisione chirurgica e con una specie di esattezza, prendere la mira, tendere l’arco e lanciare la freccia. Ma ce l’ho fatta. E i miei viaggi, la mia laurea, il mio tutto sono i miei figli.
Come si comporta la gente con te, ti capisce e ti aiuta?
Sorrido amaramente, tristemente. La maggior parte delle persone ha paura del dolore altrui, quasi fosse contagioso come la varicella. Se stai male, molto male, spesso la gente ti scansa. Sono poche le persone elastiche, capaci di accoglierti, farti spazio, mettere il tuo dolore accanto al loro. L’ego è il principe dominante. La gara, il confronto a chi soffre di più, a chi è più grave sembra essere il nuovo paradigma, quasi che ci siano dolori di serie A e dolori di serie B, dolori degni e dolori indegni. C’è molta disattenzione, molta paura e molta incapacità di gestire il dolore altrui. Sono sempre stata capita e aiutata pochissimo. A me non piace mendicare, per cui mi avvito nel mio bozzolo, soffro in silenzio e uso la parola scritta per urlare.