Il mondo lavorativo è ancora concepito e strutturato su un’organizzazione e un’evoluzione professionale “maschile”:
Purtroppo è una realtà evidente a tutti come le possibilità di carriera e di raggiungere livelli professionali medio-alti siano ancora prevalentemente prerogativa maschile (“segregazione verticale”).
In merito a questo aspetto, i fattori socio-culturali e politici coinvolti sono tanti e complessi. Fra questi, sicuramente ha un peso importante la variabile tempo o meglio, il gap fra il tempo delle donne e quello aziendale.
Il mondo lavorativo è ancora concepito e strutturato su un’organizzazione e un’evoluzione professionale “maschile”: si entra nel mondo del lavoro e indipendentemente dalle vicende personali e familiari, si deve continuare in modo continuativo e lineare il proprio percorso professionale.
E in effetti per l’uomo è così, a meno che non subentrino eventi accidentali esterni.
Questo implica che da quando inizia a lavorare, l’uomo ha la possibilità di crescere progressivamente e quindi di avere possibilità di carriera, soprattutto intorno ai quarant’anni, età in cui magari si è maturato una certa esperienza professionale, in cui si ha ancora la forza, la grinta e magari la motivazione di “spingere l’acceleratore”.
Ma per le donne, la situazione è assai diversa.
Magari è verosimile che possano iniziare a lavorare prima degli uomini, visto e considerato che, stando alle statistiche, terminano gli studi prima e con risultati migliori rispetto ai colleghi.
Poi però proprio intorno ai trentacinque/quarant’anni, epoca in cui solitamente il lavoro può prendere una progressiva ascesa se vi sono risorse, disponibilità e impegno, subentra anche il desiderio di famiglia e di genitorialità. E mentre per gli uomini l’arrivo dei figli, al di là della loro partecipazione in ambito domestico, non inficia sul lavoro, per le donne la situazione cambia.
Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland, nel loro libro “Rivoluzione Womenomics”, parlano di “curva a M” per riferirsi alla carriera delle donne: “partono a gran velocità, incontrano qualche turbolenza fra i trenta e i quarant’anni (e spesso questo segna un arresto della carriera o un arretramento), poi riprendono l’ascesa fra i quaranta e i cinquant’anni”.
Le “turbolenze” a cui accennano le autrici, fanno riferimento all’arrivo dei figli e a come questo spesso porti da una parte, le donne a investire di più anche sul fronte familiare e quindi magari ad avere una disponibilità diversa sul lavoro (il che non significa minore!) e dall’altra, le aziende a disinvestire sulle donne stesse, perché diventate mamme e quindi automaticamente considerate “meno” (impegnate, disponibili, motivate…).
In realtà il problema centrale è che il mondo del lavoro presuppone tempi lineari che non sono ovviamente compatibili con quelli esistenziali, in cui invece l’andamento è più fluttuante: momenti e periodi in cui si investe di più ed altri in cui si chiede maggiore flessibilità. Riprendendo la metafora delle due autrici, la flessibilità è da intendersi “come i mattoncini lego…che si incastrano uno nell’altro in infinite combinazioni creative”…l’importante è il risultato finale e il raggiungimento degli obiettivi, aggiungo io, per la soddisfazione e la realizzazione di tutti quanti (lavoratori e azienda).
Purtroppo la realtà con cui ancora ci troviamo a fare i conti è un’organizzazione del lavoro e del tempo lavorativo misurato su una vecchia impostazione maschile, per cui l’uomo lavora e non deve pensare ad altro e la donna si occupa dei figli. La mancanza di flessibilità e di disponibilità a trovare una maggiore compatibilità fra i tempi e le richieste aziendali e quelle personali e familiari, pone ancora oggi molte donne dinanzi a scelte forti (il lavoro o la famiglia), con il conseguente risultato che l’Italia conta uno dei più bassi tassi di natalità a livello europeo (1,32) e molte donne lasciano il lavoro dopo l’arrivo dei figli. Quando, invece, si cerca di mantenere in equilibrio tutto il sistema, ciò che spesso si verifica sono situazioni di arretramento, declassamento, arresto di carriera oppure “buonuscita” al rientro dalla maternità.
La situazione può subire qualche variazione nei Paesi in cui la famiglia può contare su maggiori supporti sociali, una migliore politica di welfare e anche una maggiore parità di genere in merito alla cura e all’accudimento dei figli.
Tuttavia sempre citando le due autrici di “Rivoluzione Womenconomics”, “la fede nel cosiddetto impegno totale è ancora profondamente radicata nelle aziende, e del resto la generazione oggi al timone della maggior parte delle grandi organizzazioni ha dedicato la propria vita interamente alla carriera e quindi si aspettano che anche gli altri facciano lo stesso”. E aggiungo io, si aspettano che siano le donne “a farsi da parte” per occuparsi della famiglia, perché “l’uomo” deve fare carriera e produrre.
Per contro, “per le donne è sensato investire molto fra i venti e in trent’anni d’età, negoziare fra i trenta e i quaranta e poi puntare decise a ruoli di leadership fra i quaranta e i cinquant’anni”, quando sia la maturità sia la consapevolezza di se stesse e delle proprie capacità come anche la forza e la determinazione, data anche dalla concretizzazione di obiettivi personali, possono essere maggiori.
E’ chiaro, quindi, che si potrà veramente auspicare di raggiungere una maggiore parità di genere e una vera implementazione del potenziale femminile solo quando il mondo del lavoro contemplerà il “bilinguismo di genere” e assumerà un approccio più flessibile, che implica ragionare per obiettivi piuttosto che in termini di tempo.
1 commento
splendido articolo – le donne al momento di chiedere la parità… hanno sbagliato approccio, perchè hanno iniziato a dimostrare di essere capaci di fare quello che facevano gli uomini… rinunciando alla proprio femminilità intesa nei suoi più profondi significati..
Parità è rispetto delle differenze.