In questi mesi sto recitando la mia terra per poter piantare un frutteto senza l’angoscia di ingrassare “a mia insaputa” i caprioli che abitano le colline d’intorno. Mentre sono così affaccendato arriva un messaggio di Caterina, chiedendomi una recensione di un bel libro dello psicoanalista francese Pierre Fédida:” Il buon uso della depressione”, Einaudi, 2002.
Nel libro Il buon uso della depressione Fèdida intende per “depressività” la capacità del soggetto di affrontare delusioni, frustrazioni, perdite, sconfitte senza cadere in uno stato depressivo.
Dotati di una buona “depressività” siamo in grado di elaborare il lutto per le separazioni, le morti, le sconfitte ritrovando quell’equilibrio alla base della relazione positiva con gli altri e, in generale, elemento chiave di quella efficienza emotiva grazie alla quale riusciamo a ek-sistere e per-sistere nel mondo. Insomma non c’è nulla di più vitale che una sana prossimità alla morte.
La depressione è invece un’insana prossimità alla morte e, più in generale al Nulla. Questo fastidioso appetito per l’annientamento che affligge l’Occidente, lascia insepolti al nostro interno cadaveri ed altri oggetti emotivi privi di vita. Il gesto di seppellire, di elaborare il lutto direbbe Freud, viene chiamato dal nostro francese “processo omeostatico auto regolativo: sapete che i francesi la devono metter giù sempre complicata perché altrimenti non c’è grandeur.
Come tutti sappiamo la vita del depresso è piena di Niente, non c’è né piacere né interesse per nulla.
Come ben spiega il recensore dell’Indice
Il nucleo del pensiero di Fédida è che l’isolamento del depresso e la sua non-volontà sono dovuti a vuoto interiore per uno scacco della capacità depressiva. In altre parole, la malattia depressiva è l’espressione di un fallimento dei processi omeostatici autoregolativi come attributi della capacità depressiva del soggetto.”
Ed è per questo che è necessario essere in due per poter uscire da questa condizione mentale. Il depresso, cioè, ha bisogno di una relazione per poter riempire questo vuoto interno. … La psicoanalisi della depressione deve quindi poter aiutare il paziente a dare vita a questi oggetti interni morti e inanimati riacquistando la sua solida capacità depressiva perduta.
Ecco, ci siamo: immaginate che il lettino nello studio parigino dello psicoanalista francese improvvisamente si gonfi, si espanda fino a diventare ondulate colline dell’Appennino Reggiano, e voi stesi lì sull’erba medica, alberi da frutta, fragoline di bosco, odor di letame stagionato; il tutto cinto da una rete alta due metri per tenere fuori caprioli ed altri rompicoglioni.
Ma anche l’astrattismo di questo approccio da psicoanalista classico che non rinuncia a panzane kleiniane come la figura della “madre” morta con la quale il cadavere, che giace insepolto all’interno del soggetto depresso, si identifica. Ma che bisogno c’è di scomodare la madre morta?
Tutto perché la Klein – radice chiarissima del pensiero di Fédida – dato che Freud agitava la figura del padre, lei allora, bastian contrario, doveva sollevare quello della madre. Mi vien da dire, con la sapienza dell’istinto: ma vai a piantar patate!
Un invito plausibile tanto è vero che la portatrice di queste due braccia sottratte all’agricoltura si presenta al funerale della madre ben vestita di nero ma con un paio di scintillanti stivaletti rossi. Chi con la madre ha questi nodi irrisolti è meglio che … pianti patate.
La lettura del libro di Fédida è stata comunque un’esperienza felice perché mi ha aiutato a mettere a fuoco quello che sto cominciando a fare nella mia terra in Emilia. In questi mesi preso a lavorare con me un paio di persone piuttosto depresse. Insieme abbiamo cominciato un percorso di ricostruzione della persona che precede di molto il suo stesso presentarsi come paziente in cura per la depressione. Una cura dove, come insegna Fédida, sarà necessario dar vita agli oggetti interni morti, ingravidando anche la figura simbolica della Madre però con un gesto che nulla ha a che vedere con Klein-scarpette rosse.
Secondo la mia pratica il processo ri-costruttivo non può che essere ludico, divertente, scandito da autoironia e sonore risate. Ludico perché bisogna tornare bambini: prima per gioco e poi per il lavoro psicoanalitico. Divertente perché il buonumore è il solo farmaco efficace per curare lo schifo che ciascun depresso prova nei propri stessi confronti (non ho mai capito perché gli psicoanalisti non partono da questo evidente stato di fatto).
Protetti dalla recinzione i miei ospiti sospendono la relazione col mondo e così possono finalmente mettere a tacere la voce del super-io. (ebbene si sono un freudiano conservatore). Non udendo più la voce che condanna la loro depressione, che disprezza come inutile il loro dolore, possono giocare con la materia. Quella stessa materia che il disprezzo del super-io e l’autodisprezzo (dell’io convinto/incantato dall’altro) rendeva inattingibile. Materia da maneggiare e così costruire, fare e faticare per mettere a tacere quel nulla che risuona nella voce del dolore.
La terapia del fare esita nella ricostruzione del soggetto, lo riporta presente a sé stesso ovvero a quello “stesso” che accetta il suo sé, essenza che finalmente riconosce ed accoglie la propria sostanza. Ecco che allora abbiamo un soggetto diventato paziente che potrà fare un buon uso della depressione.
Enrico A.
Contadino in Viano (RE)
1 commento
Da psicoterapeuta che si occupa anche di depressione, concordo con Enrico nel sostenere che la terapia e quindi la cura della depressione passa anche attraverso il fare, ovvero quello che tecnicamente chiamiamo la pratica comportamentale. questa consiste nel riappropriarsi gradualmente delle abitudini di vita quotidiana, di cura e igiene di sé, che spesso in queste situazioni va perduta. Poi recuperare o provare a dedicarsi ad attività che possano avere un presumibile effetto piacevole, al di fine di tornare alla realtà, distrarsi dai pensieri negativi e acquisire il piacere e la voglia di vivere. Poi il trattamento è molto più complesso e richiede un’attenta analisi e una ristrutturazione di tutte quelle idee e convinzioni che hanno portato alla reazione depressiva ma sempre e comunque senza prescindere dal fare e dal recupero del contatto con la realtà. In tal senso, persone, animali e natura sono sicuramente un grandissimo aiuto.