Un racconto di Natale regalato dagli autori apparsi su dols.
Dedicato ai 30.000 bambini italiani, figli di emigranti giunti in Svizzera, che intorno agli anni Settanta vissero chiusi in soffitte e cantine perché la legge vietava ai lavoratori stranieri di portare i figli con sé. Non potevano ridere, non potevano piangere e non potevano giocare, per non attirare l’attenzione. Per questo furono chiamati “bambini del silenzio”.
Quando lo conobbi era l’inverno del 1970 e avevo undici anni. E abitavo a Ginevra. E mio padre aveva aperto da poco questo negozio di animali.
Ed era quasi Natale.
Le luci della città si specchiavano la sera nel lago gelato come stelle capovolte. Vicino alla riva il ghiaccio era graffiato dalle lame dei nostri pattini. Ricami che, con le guance arrossate dal freddo e dalla velocità, tracciavamo dopo una rapida curva o una giravolta. Ricami di niente cancellati da altri ricami. Se li seguivo, se mi perdevo nelle loro traiettorie sottili, dove mi avrebbero portato?
Undici anni è un’età troppo strana, in cui non sai se credere alle cose che credevi una volta.
Per esempio, a undici anni, non sapevo se credere che quei fiocchi di neve fossero gli starnuti degli angeli, come un tempo ci diceva la maestra di religione, o vapore acqueo condensato in cristalli dalla forma regolare, come diceva mio padre che era ateo.
Per esempio, non sapevo se credere che gli uomini sono davvero uguali perché sul water si siedono tutti allo stesso modo, come diceva la bidella Maria che veniva da Reggio Emilia, o diversi come i gatti del nostro negozio, ognuno di una razza diversa dall’altra. Anche i gatti però facevano la pipì nello stesso modo.
Per esempio, Michele.
Il nostro compagno più grande, l’ultimo della classe, quello che era venuto a scuola quattro mesi dopo l’inizio dell’anno, in che cosa era uguale a me? Aveva abitato vicino a un vulcano, l’Etna, e ora viveva in un orfanotrofio appena fuori città, perché i suoi genitori erano venuti a lavorare qui. C’era questa legge in Svizzera che vietava agli emigranti di portarsi dietro i bambini. Quando i ragazzi lo prendevano in giro imitando il suo incomprensibile dialetto, la bidella Maria, dopo aver scaldato l’acqua per il tè sul piccolo cucinino della bidelleria, mi diceva: «Preferirebbero stare per un po’ in un collegio come figli di nessuno o vivere insieme alla loro famiglia e ad altre trenta persone in una baracca di sette metri per quattro, con un lavandino e il bagno fuori? La sai una cosa?»
Rispondevo no, non lo so. E intingevo nella tazza di tè fumante un biscotto di pan pepato ricoperto di cioccolato a forma di campana.
«In estate, quando picchia il sole, quelle baracche diventano forni, lo sai?»
Rispondevo no, non lo so, non ci sono mai stata in quelle baracche. I biscotti che preparava la bidella Maria, e che dava a noi ragazzi quando venivamo a rifugiarci nel suo stanzino e ci sedevamo vicino agli armadietti delle scope, sapevano di cannella, di mele calde e di mandorle. Sapevano dei giorni che mancano a Natale e delle porticine che aprivamo ogni mattina sul calendario dell’Avvento.
«E la gente se ne va a dormire sui tetti. Lo sai quanti bambini cadono giù e se li rubano gli spiriti?» Non lo sapevo quanti erano questi bambini e non volevo che lei me lo dicesse perché quando la bidella Maria pronunciava la parola “spiriti” le si abbassava la voce, le veniva una voce cavernosa e a me veniva un terrore nelle gambe che dovevo alzarmi dalla sedia e per poco non mi tiravo addosso tutte le scope.
Michele non sapeva scrivere né spiccicare un solo verbo in francese ed era uguale a me come un abete è uguale a un cactus. Lui a scuola era invisibile e i maestri non lo interrogavano neanche. Tranne l’insegnante di matematica, la signora Cornèlie Blanchard, il terrore di tutti gli studenti. Michele diventava visibile solo quando lei lo sbatteva fuori dalla porta perché i suoi quaderni erano più bianchi dei nostri. In questo io e lui eravamo uguali. La signora Blanchard sbatteva spesso anche me fuori dalla porta perché non riuscivo a tenere a freno la lingua. Però Michele disegnava bene e io no.
A undici anni non sapevo se per credere che una cosa esista devi anche vederla. Per esempio la faccenda di Dio. Una volta lo chiesi all’insegnante di religione e, tanto per cambiare, mi fece uscire dall’aula. In castigo. A quel genere di castighi ero abbonata come al Corrierino dei Piccoli anche se a scuola andavo bene e finivo per prima i problemi di aritmetica.
A undici anni non sapevo neanche se credere ancora che fosse Babbo Natale a portare i regali. O se invece li comprassero i miei genitori. Avevo chiesto i pattini nuovi. Ma avevo troppa paura per decidere perché era una scelta che avrebbe cambiato per sempre il mio futuro. Se decidevo di credere mi sembrava di tornare a intrappolarmi dentro le favole. Se decidevo di non credere mi sembrava di avventurarmi in un mondo senza regali. E senza magia.
Il mondo dei grandi.
Quando avevo undici anni.
Era l’età in cui cominciano le storie. La mia storia cominciò un po’ prima di quando conobbi lui. E un po’ prima del giorno di Natale. Cominciò, come tante altre storie, con una soffitta in cui mi era vietato entrare. E con un filo di luce che filtrava da sotto la porta chiusa, al cui interno non avrebbe dovuto esserci nessuno. E la storia proseguì quando, con la paura nelle ginocchia e il coraggio nelle dita, spinsi quella porta ed entrai…
Abitavamo in una graziosa casa d’epoca, coi balconi in ferro battuto e le cornici di pietra decorata fra un piano e l’altro. Proprio di fianco alla nostra, c’era la palazzina dove stava in affitto la bidella Maria. E di fronte abitava la signora Blanchard. Queste tre case formavano un triangolo affacciato su una piazza piccola e silenziosa, che ci si poteva vedere dalle finestre. In inverno era un triangolo bianco di neve e in estate un triangolo rosso di gerani ricadenti.
La signora Blanchard viveva da sola con la figlia, perché il marito se n’era andato molti anni fa, lasciando dietro di sé, come diceva mia madre, non la nostalgia ma una montagna di debiti. Mia madre diceva che forse era per questo che la signora Blanchard era più acida dell’aceto e a noi ragazzi dava voti così bassi. Era perché il marito l’aveva lasciata sola.
E quando ogni anno la bidella Maria si vestiva da Babbo Natale per far divertire noi studenti, la signora Blanchard non rideva mai e la guardava con disprezzo. Io lo sapevo che la bidella Maria nascondeva il vestito nella soffitta di casa sua perché un giorno in cui ero andata da lei per portarle dei pantaloni di mio padre da cucire (lei cuciva e faceva gli orli meglio di una sarta) me lo aveva confidato. Quel giorno in negozio era morta una tartaruga a cui ero affezionatissima. Non so perché ho sentito proprio il bisogno di avere intorno a me le braccia forti e calde della bidella Maria. Quel giorno ho anche sentito dei rumori che provenivano da sopra. Non poteva essere Babbo Natale, avevo già smesso di crederci da un pezzo.
Allora cos’era? O chi?
Ho chiesto alla bidella Maria, c’è qualcuno nella tua soffitta? Lei mi ha risposto, no. E mi ha detto, non salire, cara, per nessuna ragione.
Un pomeriggio che nevicava fitto ho chiesto a mia madre se dovevo portare qualcos’altro da cucire alla bidella Maria. E mia madre mi ha dato la mia giacca a vento che aveva uno strappo nella schiena. Me l’ero fatto cadendo sul ghiaccio coi pattini. Quando sono arrivata a casa sua, la bidella Maria voleva prepararmi il tè con i biscotti. Ma il tè era finito. Io ho insistito a dire che volevo il tè. Sapevo che la bidella Maria sarebbe uscita sotto la neve per andare a comprarmi il tè. E così ha fatto. Appena lei è uscita, sono salita su per la scala di legno che conduceva alla soffitta e ho aperto la porta. Non era chiusa a chiave.
Cosa mi trovo di fronte. Mi trovo questo.
Un Babbo Natale non molto alto e magro, con il vestito che indossava la bidella Maria per farci ridere. Il vestito però gli stava larghissimo. Non ho fatto in tempo a scendere che la bidella Maria era già tornata. Mi sono bloccata davanti a lei, ai piedi della scala, come un gatto davanti ai fari di un auto. Si è portata le mani alla bocca e mi ha detto: «Così lo hai scoperto!»
«Quel ragazzo vestito da Babbo Natale? Chi è?» le ho chiesto. Mica credevo che fosse un Babbo Natale vero, magari la bidella Maria pensava che ci credessi ancora?
E poi mi ha risposto: «Mio figlio.»
«Hai un figlio?! E… lo tieni qui?» Incredibile, non avevo mai immaginato che la bidella Maria potesse avere un figlio. Non ne aveva mai parlato.
«Ho nascosto Matteo in questa soffitta perché non fosse mandato all’Orphelinat du Grand-Saconnex… La legge mi vieta di tenerlo qui e in Italia non ho nessuno a cui affidarlo…» Poi la bidella Maria si è messa un po’ a piangere ma non tantissimo e mi ha detto, non dirlo a nessuno. E così ho fatto. Non ho detto niente neanche ai miei genitori. Ma forse loro avrebbero capito. Ogni tanto, con la scusa di portarle qualche vestito da sistemare, andavo a trovarla e poi salivo in soffitta e parlavo con questo Babbo Natale che era suo figlio. Ma parlavo una lingua diversa dalla sua e allora io e lui non parlavamo con la lingua ma coi gesti. Non so come riuscivamo a divertirci lo stesso.
Una sera lui si è sporto dalla finestra piccola sotto il tetto e stava passando la signora Blanchard, che ha alzato lo sguardo. Le è sembrato di vedere la testa di un bambino stagliarsi dietro al vetro.
Due nevicate forti e due pomeriggi più tardi, io e Matteo stavamo giocando con il vestito di Babbo Natale. Un po’ lo indossavo io e un po’ lui. Adesso era il suo turno. Facevamo una recita. Una recita muta, solo a gesti, lui era bravo come mimo. Abbiamo sentito un gran trambusto al piano inferiore. Una voce inconfondibile. Quella della signora Blanchard. Dava delle indicazioni a qualcuno. Un uomo. La bidella Maria gridava, no, no. Ho sentito dei passi pesanti sulle scale e il poliziotto è piombato come un falco su di noi che stavamo imitando le renne. Era un agente della polizia cantonale. Ha preso Matteo per un braccio con addosso il vestito da Babbo Natale, perché non ha fatto in tempo a toglierselo, e l’ha portato via. Poi ha portato via anche la bidella Maria. Poi non li ho più visti e sono venuta a sapere, a scuola, che li avevano rimandati in Italia. Io non ho più visto la bidella Maria e neanche Matteo, ma il bacio che lui mi ha soffiato con la mano aperta mentre lo spingevano giù dalle scale non lo dimentico.
Quel giorno è stato il più bello e il più triste della mia vita.
Più triste.
Perché adesso avevo proprio la certezza che Babbo Natale non esisteva, perché se fosse esistito avrebbe fatto qualcosa.
Più bello.
Perché un ragazzo mi ha dato il primo bacio senza neanche avermi baciata. I baci dati te li puoi dimenticare, ma quelli non dati li ricordi per sempre, perché per sempre ti immagini come sarebbe stato darli.