La ”Venere in pelliccia” di Polansky è un film strepitoso, recitato da due attori fantastici nel luogo chiuso di un teatro interiore ed universale, mentre fuori piove.
Sembra un film sul mito di Venere.
Ma non è un film; è un monito a non credere che gli Antichi Dei siano stati sconfitti ed esiliati dalla Triade del Monoteismo mediterraneo. Al contrario vivono e banchettano nel nostro abisso interno e mal sopportano essere ridotti a oggetto di letteratura.
Perbacco! dicono in Emilia per significare “Prego” (avviso per i duri di cervice, Esodo 33: c’è il doppio senso)
Questo è il mio commento su FB di ieri sera, appena uscito dal cinema e ancora preda dello scotimento emozionale provocato dall’arte di Polansky e di quella bella figa (si può dire in un sito femminile?) di sua moglie che meravigliosamente recita nella parte di se stessa, di Wanda, di Venere e di una baccante.
Questa mattina, mentre pedalavo verso Turbigo sulla mia bici da corsa di marca Colli, ho cercato di far Colli-mare i diversi piani di senso del film. Torno a casa e leggo il commento di una mia amica femminista che chiede “cosa c’entrano le Baccanti alla fine?”
Sarà perché sono stato a Turbigo ma la domanda mi ha turbato. Non è un gioco di parole ma il mio metodo di osservazione, basato sull’unica verità teologica che conosco: la Realtà è simbolica perché la Creazione è generazione di Senso.
Ciò che mi turba di questa domanda è l’assoluta evidenza della riflessione mitologica che Polansky compie attraverso la rilettura della vicenda, alquanto banale, di Sacher-Masoch.
Ho dato una rapida occhiata ai commenti dei critici e vedo che insistono sulla “cifra” femminista della Venere di Polansky. Quasi che questa cifra sia una tarda remissione dei suoi peccati di una gioventù machista.
Ma è una lettura riduttiva, ridotta al banale: il femminismo non c’entra assolutamente nulla. Al centro dell’opera di Polansky non c’è il femminile, c’è il “donnico”: la potenza della donna – non della femmina – contro le astuzie della ragione dionisiaca maschile.
La menzione della causa femminista da parte dei critici è il sintomo più evidente della tragedia: si è persa la capacità di porsi in ascolto e/o di percepire, al di sotto del rumoroso esistere, la voce degli Dei Antichi, di a-tendere a quel eterno ed universale umano che Essi rappresentano e ripetono nelle loro vicende.
Fin dai titoli di testa – camera in soggettiva che percorre un viale (odos in greco) per entrare in un teatro, in un edifico situato tra le abitazioni cioè tra gli abiti e le abitudini. Non lo capiamo subito ma chi entra nel teatro è Venere che, dopo aver attraversato tutta città-civitas, viene a dare una lezione ad un intellettuale francese del ca***** (ha un cane che si chiama Deridda). Un tizio che assomiglia in modo scandaloso al giovane Polansky.
Venere ha gli abiti, i modi e la armi di seduzione (un bel paio di t****) di una attrice che ha – notate – lavorato in un fantomatico “Teatro dell’orinatorio”. E’ li, in ritardo, fare un’audizione per la parte di Wanda, la dominatrice di Sacher-Masoch, nella piéce tratta da “La Venere in pelliccia” dello stesso Masoch.
Un libro noiosissimo, tra l’altro.
All’inizio il regista ed autore della piece non ne vuole sapere: a casa ha la fidanzata che lo aspetta, lui è stanco ma alla fine, sottomesso alla grinta e dal fascino, cede e la invita a leggere le prime battute della piece.
E qui si comincia a capire che l’attrice-che-sembra-una-troia è Venere stessa: recita le battute della piece in modo perfetto, assolutamente “donnico”. Qui inizia il processo di seduzione e di sedizione da parte della donna-Venere nei confronti del maschio-Dioniso-Polansky. Polansky mette in scena magistralmente un complicato ribaltamento dei ruoli dove si intreccia il piano realistico con quello metaforico, il piano umano con quello divino: l’attrice-troia che fa Wanda dominatrice nella piece e Venere-dominatrice nella relazione con l’autore, svela lentamente la propria natura divina (conosce perfettamente tutte le battute della piece pur non avendo quasi letto il copione).
Il ri-velarsi di Venere avviene nella con-fusione del piano della piece con quello della vita reale dell’autore. In forza di questa con-fusione, l’autore riconosce le ragioni per le quali il testo di Sacher-Masoch lo ha sedotto e, incalzato da Venere, si identifica in una Wanda sottomessa.
Una sottomissione che allude alla creatività dionisiaca di ogni artista che viene tradita e sottomessa dalla seduzione della normalità della vita borghese, con le sue “tranquille scopate” come lo rimprovera Venere.
E le Baccanti cosa c’entrano, alla fine?
L’attrice troia – Wanda – Venere appare nell’ultima scena con i capelli raccolti in una elegante acconciatura di stile ionico, nelle vesti di una Baccante, cioè di una delle donne di Tebe rese folli da Dioniso offeso perché il Re Penteo non ne riconosce la natura divina.
La Baccante danza nuda ma appena coperta da una pelliccia attorno al nostro povero strapazzato intellettuale, legato mani e collo a quello stesso albero dove si era nascosto, nella tragedia di Euripide, il Re Penteo per osservare le Baccanti.
La scena finale è un monito agli artisti, un avvertimento per gli intellettuali che può essere espresso così: quando parlate dell’universalmente umano, quando alludete agli Dei interiori dovete farlo con voce autentica, quella voce che è l’unica in grado di portare nell’opera il vostro essere. Insomma dovete sbilanciarvi non come Penteo che, dal nome stesso, mette in gioco una sola mano (cinque sono le dita).
Nei titoli di coda, la camera di nuovo in soggettiva, narra l’uscita della Dea dal teatro umano, alquanto dimesso a dir la verità.
Ci sarebbe da dire molto, molto altro; ma allora perché andare al cinema a vedere questo film molto, molto bello.
REGIA: Roman Polanski
SCENEGGIATURA: Roman Polanski
ATTORI:
Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
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Gli appelattivi ‘maschilisti” dell’autore non sono condivisi dalal redazione ma per il resto ”va bene”.:) (n.d.r)