”Per i giovani l’Europa è davvero senza frontiere, perchè non hanno memoria di cosa fossero le dogane, sono abituati all’euro, ai voli low cost e hanno familiarità da sempre con le lingue straniere, grazie a internet. Lavorare in un paese europeo è relativamente facile.”
Questo lo afferma Margot Bezzi, ravennate del ’79, che ha lavorato per la Commissione Europea e ora vive a Roma dove collabora con l’APRE – agenzia per la promozione della ricerca europa.
Ci parli del tuo percorso di studio e lavorativo?
Dopo una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione conseguita all’università di Bologna e aver preso parte a corsi di specializzazione in cooperazione internazionale attualmente seguo un master in Social Innovation e Social Business.
Fin dai miei studi, mi ha sempre interessato di più capire come i media funzionassero, piuttosto che usarli. Sono sempre stata più interessata al loro lato politico e strategico e a capire l’influenza che avevano nel condizionare comportamenti, stili di vita e assetto valoriale. Con il progressivo diffondersi di internet questo interesse è stato trasferito agli aspetti politici, e alle implicazioni sociali delle nuove tecnologie. Come internet avrebbe influenzato l’organizzazione della nostra vita psicologica, privata, culturale e sociale? Quali prospettive avrebbe rappresentato internet per le aree più povere e inaccessibili del pianeta?
Si trattava di una prospettiva molto poco capita ai tempi (e in dieci anni le cose sono migliorate solo relativamente, almeno in Italia).
Tra sguardi basiti e scettici, ho quindi cercato di raggiungere quei luoghi in cui una riflessione in tal senso stesse prendendo piede a livello pubblico: le Nazioni unite e la Commissione europea.
È iniziato quindi un lungo (e faticoso) periodo di costruzione di un CV che potesse competere a livello internazionale. Corsi di specializzazione, perfezionamento dell’inglese, serate interminabili a scrivere e inviare lettere di motivazione in giro per il mondo – il tutto mentre lavoravo in un’agenzia di comunicazione web. Finalmente si è innescato un circolo virtuoso che tra stage, borse di studio e contratti, mi ha portato in Cile, a Bruxelles e in Egitto, e di nuovo a Bruxelles con un contratto a tempo determinato alla Direzione generale CONNECT (Communication Networks, Content and Technologies) della Commissione europea.
Quale è stata la cosa pù impegnativa?
Quello che è stato difficile da giustificare e da vendere all’inizio era il mio interesse e la mia capacità di lavorare a livello sia internazionale che strategico e politico. Data la mia laurea, tutti associavano il mio profilo piuttosto a quello di una giornalista o di una esperta di web – e ci ho messo anni prima che smettessero di chiamarmi per questi ruoli. Tutto ciò che riguardava l’analisi sociologica dei media restava invece una dimensione del tutto incompresa (e tutt’ora lo è, dato quello che si dice dei laureati in scienze della comunicazione!)
Cosa vuol dire lavorare per la UE? Ti senti un granello o ti percepisci come al centro del mondo?
A parte essere al centro dell’Europa, in cui tutto è raggiungibile in due ore…quello che io percepivo era di fare parte di una dimensione storica e geografica più grande. Di essere il frutto di un progetto ai tempi visionario, che seppe guardare, in un momento in cui ancora le ferite della seconda guerra mondiale erano aperte, al di là dei millenni di guerra che avevano diviso l’Europa.
Questi i pensieri a cui tornavo ogni qual volta mi sentivo scomparire all’interno di una macchina gigante, sopraffatta da una burocrazia tale da offuscare la logica delle tue azioni quotidiane. Sì, perché se da un lato sai di stare contribuendo a dare forma alla vita di milioni di persone, e che quello di cui fai parte ha un impatto forte sul mondo intero – non solo sull’Europa, dall’altro sai di essere un ingranaggio governato da logiche più alte. È normale. Sarebbe ingenuo pensarla differentemente.
È difficile lavorare per la UE? E ne vale la pena?
Sicuramente è un ambiente altamente selettivo ed entrarvi non è facile. Le selezioni sono coordinate da un organismo, EPSO, che è anche quello che organizza i concorsi. Competenze linguistiche di alto livello ed esperienze di lavoro internazionali: queste sono i due principali requisiti per essere sezionato. È comunque un ambiente molto interdisciplinare, per cui più o meno tutti i profili possono avere chance di entrare.
Per il resto è un ambiente che ti valorizza, ti forma e ti dà la possibilità di crescere, se non tanto in carriera, almeno in termini di formazione continua e specialistica.
È un ambiente profondamente e esplicitamente etico, dove esiste la riprovazione per affermazioni o atteggiamenti non consoni e che vanno contro il bene pubblico. Esiste il pudore rispetto a certe affermazioni e atteggiamenti. In particolare, io ho avuto la fortunadi lavorare con persone con grande e alto senso di consapevolezza e
responsabilità rispetto al loro ruolo, in grado sempre di trasmettere la motivazione necessaria e di ricordarmi per chi e per cosa io stessi lavorando.
È un ambiente, infine, che richiede la padronanza di un tipo di savoir faire a cui, come italiani, di norma non siamo educati, per tutto quello che riguarda competenze di base come la capacità di dialogare e confrontarsi su idee e posizioni diverse. Sono capacità che si affinano subito comunque – pena una sana disapprovazione.
Quindi, a parte la difficoltà ad entrarvi (che presuppone che uno sappia il fatto suo), dopo non è difficile lavorarvi.
Poi però bisogna considerare cosa vuol dire proiettare la propria vita lontani dal proprio paese sul lungo periodo, e vivere a Bruxelles (che non è Parigi, non è Madrid, non è Londra…). Ma queste sono tutte considerazioni che ricadono nella sfera molto personale di ognuno.
Che ne pensi delle evoluzioni dell’Unione europea che si stanno rivelando al giorno d’oggi?
Penso che come il nostro sistema economico, l’Unione europea in quanto istituzione politica e amministrativa stia attraversando un momento, se non di crisi, sicuramente di ridefinizione di ruolo, come per altro sarà a breve il caso anche per i nostri Stati nazione.
I recenti importanti allargamenti, e quelli che si profilano all’orizzonte inoltre, introdurranno una dimensione dell’identità europea del tutto diversa e da costruire. La maggior parte dei paesi dell’Europa dell’ovest e alcuni dell’Europa dell’est hanno fin ora potuto contare su collanti molto potenti, primo fra tutti quello della dimensione della storia condivisa, soprattutto in termini di sofferenza. Ancora prima dell’abbattersi delle frontiere e dell’euro, un’identità europa esisteva già. Sembra banale, ma le famose barzellette anni ’80 su un tedesco, un francese e un italiano….(che,
non per nulla, ora non si sentono più!), rendevano conto, in un clima di separazione e distanza, di quanto ci piacesse definirci per differenziazione, ma anche di quanto in realtà l’altro ci fosse perfettamente familiare.
Con i futuri Stati membri non sarà la stessa cosa, e ci vorrà molto tempo a livello culturale prima di riuscire a costruire un’identità comune. Ovviamente gli elementi di identificazione e appartenenza, saranno diversi.
L’Unione europea continua anche a soffrire di un forte problema di percezione. È noto infatti quanto l’impatto dell’Europa sulla vita dei cittadini sia normalmente strumentalizzato e semplificato dagli Stati membri, a livello nazionale, in senso negativo, per sollevarsi da eventuali proprie responsabilità. Per esempio, nella percezione di molti l’Unione europea resta spesso quella spietata delle banche, nonostante i valori sociali, soprattutto della solidarietà, siano alla base delle sue politiche, e dimenticando soprattutto come le politiche sociali siano responsabilità condivisa tra l’UE e gli Stati membri, e questi ultimi abbiano perciò un certo margine d’azione.
Siamo un’Europa senza frontiere davvero?
Dipende per chi. Sicuramente, al di là di disposizioni politiche e amministrative, del lavoro rimane comunque da fare sul piano culturale e dell’integrazione per quanto riguarda i nuovi stati membri, gli stati dell’est. Ma il programma Erasmus è un grande strumento a proposito, e secondo me, per i giovani sì, l’Europa è senza frontiere.
Loro non hanno memoria di cosa fossero le dogane, sono abituati all’euro e a ryanair, e hanno familiarità da sempre con le lingue straniere, grazie a internet. Lavorare in un paese europeo è relativamente facile.
2 commenti
Pingback: Giovani senza frontiere : WISTER
Infatti i giovani rimangono male quando in alcuni paesi non vengono accolti beni… Non so da dove venga lo spirito europeista in Italia e quanto sia diffuso ma vivendo in un’altra nazione dove non ci si sente parte dell’Europa… Gli europei sono considerati ‘migranti’, nè più nè meno com’era vent’anni fa. Addirittura in alcuni luoghi come prova di identitá accettano solo il passaporto… L’Europa era un sogno che è nato e morto….