di di Lucina di Meco da LittleightLab
Con un governo composto a metà di donne, Matteo Renzi ha dato un segnale di grande importanza quanto alla volontà di promuovere la leadership femminile. La presenza di donne in posizioni governative è infatti universalmente riconosciuta come uno degli indicatori chiave a cui guardare per giudicare lo stato della parità tra uomini e donne in un Paese. Non certo l’unico, quindi, ma pur sempre un indicatore importante.
Già nel 2013, secondo il World Economic Forum Gender Gap Report, l’Italia era in cima alla classifica dei Paesi occidentali quanto a leadership femminile in politica, avendo guadagnato 11 posizioni rispetto al 2011 e quindi superato Francia, Regno Unito e Stati Uniti. La ragione di questo scatto in avanti era la composizione dell’attuale parlamento, formato, per la prima volta nella storia, dal 30% di donne (soprattutto grazie al 38% di presenza femminile tra i parlamentari di M5S e PD).
Come illustrano Bettio e Rosina, è ancora presto per dire se e quanto l’aumentata presenza femminile avrà conseguenze sulle politiche per le donne.
Secondo uno studio dell’Università di Princeton, le donne parlamentari tendono a farsi portavoce dei problemi della parte più vulnerabile della popolazione (tra cui, donne e bambini) con più frequenza rispetto ai loro colleghi uomini, ma, spesso, non vengono ascoltate. Sostiene quindi lo studio che affinché la presenza femminile in parlamento si traduca in buone politiche pubbliche, le legislatrici devono muoversi in un contesto di reale parità con gli uomini. In questo senso, quindi, garantire alle donne posizioni di massima leadership come quelle governative è un ottimo inizio, ma pur sempre un inizio.
Per portare avanti politiche sociali e economiche favorevoli alle donne, le parlamentari devono però poi anche appropriarsi di una forte agenda di genere e portarla avanti nella propria attività legislativa, governativa e all’interno dei partiti.
In Italia, non sarà un’impresa facile. Molte delle nuove parlamentari, infatti, non hanno una preparazione (e alle volte nemmeno una sensibilità) sui temi di genere, essendo state selezionate dai partiti d’accordo non a questo ma ad altri criteri, per esempio in quanto “outsiders” e pertanto sinonimo di rinnovamento (vedi soprattutto il caso del M5S), oppure grazie all’applicazione di un sistema di quote di genere (vedi il caso del PD). Non sempre viene riconosciuta alle donne, poi, all’interno dei partiti, la stessa autorità di cui godono i loro colleghi uomini, anche a parità di posizioni.
Per quanto la loro composizione sia, infatti, negli ultimi anni, cambiata, la struttura e la dialettica dei partiti sono rimaste spesso, profondamente patriarcali. Basti pensare che due dei tre partiti che hanno preso più voti alle scorse politiche non prevedevano nessuna politica femminile nel loro programma. Verrebbe da chiedersi dove erano e che ruolo avevano le candidate di questi partiti quando questi programmi venivano preparati, pubblicati e diffusi.
Uno dei primi banchi di prova dell’autorevolezza delle parlamentari e della loro sensibilizzazione sui temi di genere sarà la riforma della legge elettorale. Per quanto il disegno iniziale dell’Italicum preveda, infatti, alternanza di genere nelle liste, cosi come è la legge non garantirebbe una rappresentanza paritaria, come ha più riprese spiegato la Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli. Un’alleanza trasversale di donne parlamentari di diversi partiti ha presentando settimane fa un emendamento per modificare quindi il disegno di legge in chiave paritaria e sta in queste ore lottando perché venga mantenuto.
Il destino di questo emendamento rappresenterà, quindi, un termometro della forza e del peso specifico che le donne hanno oggi in parlamento in quanto portatrici degli interessi femminili. Per ora, sembra la battaglia si profila estremamente dura. Per quanto, infatti, le donne rappresentino un bacino elettorale non solo grande ma addirittura maggioritario, i loro interessi sono generalmente trattati come interessi “di nicchia” e secondari, dunque sempre negoziabili.
Con una situazione di questo tipo nella politica, non deve stupire che le italiane vivano in condizioni di sottoimpiego o disoccupazione, crescente gap salariale e violenza nel sociale.
Indipendentemente dall’esito della loro battaglia per la rappresentanza paritaria, è auspicabile che le parlamentari si facciano protagoniste di una vera e propria rivoluzione per il rafforzamento della leadership femminile in politica, a partire dai propri partiti. Moltissime sono le migliori pratiche da seguire: la creazione di specifici comitati di fundraising per le candidate donne e l’istruzione e la sensibilizzazione delle candidate sui temi di genere (sul modello della Emily’s List americana), le quote generalizzate e obbligatorie per tutte le posizioni di partito, la creazione di vere e proprie “agende rosa” che illustrano la posizione di ogni partito sui temi di genere (come in Canada), l’incorporazione della prospettiva di genere in tutte le fasi del processo legislativo (come in Spagna), solo per menzionarne alcune.
Per concludere, scrivono le economiste di Valorizzare le donne conviene, “la causa della stasi, negli ultimi decenni, delle rivoluzioni delle donne italiane è forse dovuta al fatto che la rivoluzione nella politica non è ancora cominciata”. Un governo composto per metà di donne è quindi forse un segno che questa rivoluzione è iniziata. Di quanto tempo avrà bisogno per realizzarsi, dipenderà da molte cose, a cominciare dalla volontà e forza delle donne elette in parlamento