I membri della comunità valdese sono in Italia poco più di venticinquemila, ma nel 2008 secondo i calcoli ISTAT le firme per devolvere l’otto per mille alla Chiesa valdese sono state 413.000.
di Loretta Junck
Estratto dalla relazione di Loretta Junck al II Convegno Nazionale di Toponomastica femminile (Palermo, 2013).
Il testo integrale è consultabile alla pagina:
I membri della comunità valdese sono in Italia poco più di venticinquemila, ma nel 2008 secondo i calcoli ISTAT le firme per devolvere l’otto per mille alla Chiesa valdese sono state 413.000. Il dato dimostra in modo incontrovertibile la considerazione di cui i valdesi godono nel nostro Paese.
Essi costituiscono, nella galassia protestante, un caso particolare, in quanto quella valdese è una dottrina che risale al Medio Evo, e precisamente al sec. XII, quando si diffuse nella Francia del Sud il movimento “ereticale” dei Poveri di Lione, in seguito alla predicazione di Pietro Valdo, nel quadro dei fermenti pauperistici che si stavano sviluppando in quel periodo, di cui faceva parte anche il gruppo che si raccolse in Umbria intorno a Francesco di Assisi.
Duramente perseguitati, furono costretti a professare la loro fede in clandestinità e trovarono rifugio in zone eccentriche e montuose, sia in Francia sia in Italia.
Nel sec. XVI finirono poi per aderire alla Riforma protestante, nella sua versione calvinista.
Anche in Piemonte i rapporti fra i duchi di Savoia e la comunità valdese, che si era stabilita nelle valli occidentali, furono sempre difficili. Le persecuzioni furono sanguinose soprattutto nel secolo XVII, e culminarono quando il duca Vittorio Amedeo II, in seguito all’abolizione dell’editto di Nantes da parte di Luigi XIV nel 1685, iniziò a dare la caccia ai valdesi nelle loro stesse valli. Migliaia di persone furono costrette a emigrare in Svizzera. Ma nel 1689 mille valdesi, finanziati dal re d’Inghilterra e guidati da Henri Arnaud, rientrarono nella loro patria in armi. Fu il Glorioso Rimpatrio in seguito al quale il duca di Savoia dovette venire a patti, emanando nel 1694 un editto di tolleranza. Da allora la comunità valdese ebbe la possibilità di vivere libera dalle persecuzioni in un ghetto alpino costituito dalla Val Pellice, dalla Val Germanasca e dalla bassa Valle del Chisone, limitatamente alla riva destra del torrente. Questo durò fino al 1848, quando il re di Sardegna Carlo Alberto concesse ai valdesi del Piemonte piena libertà, quella di cui la comunità già aveva potuto godere durante la breve parentesi del periodo napoleonico.
Oggi la chiesa valdese, in cui dal 1963 il pastorato è accessibile alle donne, si distingue per il rigore con il quale sostiene la laicità dello Stato e per l’apertura culturale con cui favorisce il dibattito su temi etici quali l’omosessualità, l’aborto, il testamento biologico, l’eutanasia.
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Per ottenere un quadro della toponomastica femminile delle valli valdesi sono stati selezionati i quindici Comuni compresi entro i confini del 1694.
Sono i Comuni di Angrogna, Bobbio Pellice, Inverso Pinasca, Luserna San Giovanni, Massello, Perrero, Pomaretto, Prali, Pramollo, Prarostino, Rorà, Salza di Pinerolo, San Germano Chisone, Torre Pellice, Villar Pellice.
In questi centri gli odonimi sono una minoranza, com’è normale nei comuni montani (solo 195 su un totale di 938 toponimi nei comuni ricordati), ma di questi solo sette sono femminili: il 4,8 %, una percentuale che non si discosta dai risultati nazionali.
Ma vediamo nel dettaglio a chi sono dedicate queste sette targhe.
Tre sono intitolate a personaggi indicati con il solo nome di battesimo: località La Maria ad Angrogna, località Barbara a Bobbio Pellice, cascina Giulia a San Germano. Una ricorda, collettivamente, una categoria femminile: piazza delle Diaconesse a Pomaretto. Solo tre sono le intitolazioni a singole donne illustri: piazza Charlotte Peyrot ancora a Pomaretto, corso Regina Margherita a Inverso Pinasca e via Jenny Cardon a Torre Pellice. Quindi, lasciando da parte le prime tre, che nulla ci dicono dei personaggi femminili che ricordano, e anche quella dedicata alla regina, scopriamo qualcosa delle intestatarie.
Le diaconesse (ma ci piacerebbe poterle chiamare “diacone”) erano donne che nei primi secoli del Cristianesimo si dedicavano probabilmente a compiti ausiliari nella comunità ecclesiale; l’istituzione fu riportata in auge nel corso del secolo XIX nel mondo protestante, in cui le diaconesse hanno costituito una comunità religiosa investita di compiti sociali.
In Italia la prima casa delle diaconesse venne aperta nel 1901, per rispondere alle necessità dell’ospedale valdese, sul modello di quella di Saint Loup in Svizzera, nonostante le riserve che questo istituto suscitava, perché sembrava troppo simile alle analoghe istituzioni cattoliche e lontano dalla concezione classica di vita cristiana del protestantesimo.
Nel tempo le diaconesse sono state impiegate negli ospedali valdesi in tutta Italia, nei ricoveri per anziani, negli orfanotrofi.
In declino dagli anni ’60, l’istituzione si può oggi considerare superata. Nel mondo moderno altre possibilità si offrono all’attivismo femminile, mentre le rigide regole del gruppo hanno allontanato le nuove vocazioni: l’ultima sorella è andata in pensione circa venti anni fa.
L’intitolazione di Pomaretto sembra rendere in qualche modo onore alla funzione esercitata in passato da queste donne e, nello stesso tempo, prendere atto della loro scomparsa.
L’altra intitolazione femminile di Pomaretto ricorda Charlotte Peyrot, fondatrice dell’Ospedale Valdese di Torre Pellice.
Nata nel 1764 da un’agiata famiglia di commercianti con legami internazionali, Charlotte sposa il pastore Pietro Geymet, già moderatore della Tavola, e lo segue a Pinerolo, dove durante il periodo napoleonico egli ricopre l’importante carica di sottoprefetto. Sono anni in cui i Valdesi possono godere di una completa libertà religiosa. Ma con la Restaurazione i coniugi Geymet devono tornare a Torre Pellice, dove Pietro assume l’incarico di rettore del Collegio valdese. Per integrare le modeste entrate del marito e provvedere alle esigenze della sua numerosa famiglia, Charlotte apre allora un pensionato per studenti.
Ma non basta, perché, dopo aver allevato i suoi otto figli, questa singolare donna dall’energia inesauribile fa sua un’idea che era nell’aria da tempo, quella della costruzione di un ospedale per i Valdesi. Questi, infatti, non venivano accolti nelle strutture ospedaliere, per lo più a carattere confessionale cattolico, come l’Ospedale Mauriziano di Luserna, a meno che non accettassero di abiurare la loro fede. La creazione dell’Ospedale diventa lo scopo della vita per Charlotte, che attraverso il pastore Cellérier di Ginevra, famoso predicatore, coinvolge le Chiese protestanti di tutta Europa e non solo quelle, dal momento che anche lo zar Alessandro I risponde all’appello con una generosa donazione.
Il primo nucleo di quello che sarà l’Ospedale Valdese di Torre Pellice viene inaugurato nel 1826, cinque anni dopo che era iniziato l’iter che aveva portato alla sua fondazione, per la singolare tenacia di questa donna che il prof. Augusto Armand Hugon nella sua opera La donna nella storia valdese definisce ”primo esempio di attivismo femminile”.
Jenny Cardon Pejronel era nata a Torre Pellice nel 1917 ed era portaordini nella V divisione GL in Val Pellice dalla fine del 1944. Aveva solo ventotto anni quando cadde, durante l’ultimo combattimento nella zona; rilasciata dopo un arresto, era tornata subito al suo incarico e stava recandosi a una postazione partigiana per portarvi un ordine.
Nelle motivazioni della proposta di decorazione con la medaglia di bronzo si legge che “Sorpresa dal nemico che fuggiva fece scudo col proprio corpo per impedire ai nazifascisti di sottrarsi al micidiale concentramento d’armi partigiane. Cadde per colpo fascista il 26 aprile 1945 in regione Rio Gros”.
A Torre Pellice una targa stradale ne onora la memoria.
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