La vigilia di ogni competizione elettorale ripropone l’annosa, e mai finora risolta, questione della rappresentanza di genere. E giustamente.
Il concetto di parità viene ribadito nella sacrosanta rivendicazione di quelle “pari opportunità” di fatto negate da sempre: nei secoli la politica è stata declinata al maschile, nelle istituzioni, nel linguaggio, trasformando la differenza di genere in esclusione sociale. Sapere e professionalità delle donne sono stati occultati e sacrificati sull’altare di un potere dispotico rigidamente maschile.
Negli ultimi anni la domanda di cambiamento si è fatta urgenza. La necessità di una democrazia che sappia includere la ricchezza del femminile è stata a ribadita a gran voce. E tuttavia il problema resta, ma quello che più colpisce è che venga spesso mal posto. Il linguaggio fa luce come sempre su quello che è uno snodo cruciale, ovvero la sostituzione del termine “differenza” – e la sua ricchezza – con l’ambiguità dell’ “uguaglianza”. Sicché la rivendicazione di “pari opportunità” si confonde con l’errato concetto di equivalenza. Lì dove il punto non è quello di annullare le differenze ma, al contrario, quello di riconoscerne la ricchezza e l’apporto fecondo.
Qui la questione della rappresentanza di genere si annoda a più ampio problema, di natura culturale, che attiene al rispetto. Concetto calpestato in ogni ambito e del quale il più grosso strumento di educazione di massa – la televisione – ha fatto scempio. E’ innegabile che la dignità della figura femminile sia stata avvilita da anni di immagini e modelli che hanno schermato la complessità e il valore della sua natura. Il muro dell’esteriorità, sia di valenza bigotta che ammantato di quella falsa modernità che genera stereotipi estetici patinati, lungi dall’essere una rivalsa di genere, è stata l’ennesima strategia di esclusione – nonché, colpevolmente, di autoesclusione. La barriera dell’immagine ha continuato a perpetrare di fatto la subalternità.
E’ necessario scavallare lo schermo dell’apparire per recuperare una complessità che non può essere ridotta a forma estetica, né tantomeno marchiata nell’omologazione di una perfezione astratta. Ed è ancor più necessario per veicolare un valore così connesso a quello di rispetto: quello di differenza. Differenza da declinare in ogni aspetto e da intendere come opportunità di scambio e reciprocità di arricchimento. Solo così, con una più radicale operazione culturale, è possibile bypassare l’impasse di una vera affermazione di genere – che non sia mero epifenomeno di folclore – anche in quegli ambiti di potere storicamente maschili.
Non uguaglianza, dunque. Ma apprezzamento e valorizzazione di quella “diversità” fra maschile e femminile, incardinata sul reciproco rispetto, da riconoscere come necessità imprescindibile per la costruzione di valori democratici e civili.
1 commento
” Non uguaglianza, dunque. Ma apprezzamento e valorizzazione di quella “diversità” fra maschile e femminile…” Conclude così l’articolo di Alessandra Spadino con il quale concordo appieno ed aggiungo: quale migliore occasione per rimettere in chiaro la differenza tra l’affermazione dell’uguaglianza e l’accettazione del Femminile come altro diverso e di arricchimento per una cultura che si sta svuotando nei valori e nei contenuti? Il rischio è che anche attraverso la campagna elettorale il falso interesse verso la cosiddetta “pari opportunità” si traduca in una “esca” di convenienza per i partiti, laddove, al pari dei servizi alla persona usati come attrazione formale per un consenso,non sono, invece, l’introduzione di un modello di buone pratiche a partire dall’attività di lavoro, coinvolgimento e formazione.