Racconto di viaggio di Marcella Cecconi da Sharm a Luxor
LUXOR, IL TEMPIO DELL’UOMO
Sharm El Sheikh, settembre 2002.
Lunedì, ore 10 a.m. Faarana Reef Resort.
Giacere: essere adagiato su di un piano orizzontale… Ecco, allora io giaccio, svogliatamente allungata sulla sdraia, al bordo piscina .
La mia mano sinistra regge di sbieco “Storie di ordinaria follia”, mentre la destra ciondola in sospensione, ricamando disegni in aria, e inseguendo pensieri e parole rubate alle pagine del libro: “Poi dormimmo abbracciati per un’oretta. Era in certo qual modo anche meglio che far l’amore”… Concordo.
Il figlio ed il padre sono andati in spiaggia, ed io ne approfitto per un attimo di relax, momentaneamente
sciolta dagli impegni materni, e assaporando gioiosamente una riconquistata singletudine, modernizzazione del termine zitellonaggio, ovvero quella particolare condizione esistenziale in cui una fa esattamente quello che le salta per la testa, dalla mattina alla sera. Tale concetto si contrappone con decisione a parole quali “mamma”, “moglie”, “compagna”, provocando evidenti e drammatici contrasti.
Sotto l’ombrellone di paglia e finto teak, ho organizzato uno spazio tutto personale, con un tavolino e varie
seggiole su cui spargo casualmente le mie cose; una bottiglia d’acqua, delle creme, alcuni libri di riserva ed un cocktail di frutta con un ombrellino giallo. In un angolo in alto ho lanciato il pareo, in quello in basso il cappello con visiera; posso tornare ad essere una ragazzaccia disordinata.
Mi spalmo addosso una protezione solare 50 ed ora, rigorosamente all’ombra, mi appresto ad una lettura
sana e pigra, il mio sport preferito durante tutta la vacanza. La vita del villaggio turistico è sostanzialmente tediosa, ed il metabolismo si è stabilizzato su di un “andante lento”, largo, molto largo e greve; mi limito solo ad un ferreo allenamento cerebrale. Il resto del corpo non risponde.
Un cameriere nero in divisa bianca passa con cadenza regolare, rimpinguando il bicchiere del succo e
lasciando fiori e dolcetti. Io sorrido sempre, e ringrazio distrattamente con un cenno della testa o della mano. E’ una catena di montaggio del ristoro seriale penso, talvolta noiosa e spesso petulante, mentre io avrei tanto bisogno di stare da sola… Pausa.
Ore 11 a.m.
Nonostante un’insistente brezza marina, il termometro oggi segna i 45 gradi, con un’umidità dell’ottanta
per cento.
Sento chiaramente una goccia di sudore che nasce all’attaccatura dei capelli. Chiudo gli occhi ed osservo la sua discesa sul mio volto. La vedo, perlacea, che si distacca dal cuoio capelluto, e precipita lungo la fronte, con determinazione. Prude, graffia, fa addirittura rumore mentre attraversa l’universo della mia pelle. Poi ha un blocco, si insinua fra le sopracciglia, trova difficoltà a farsi largo e rallenta. Nell’indecisione prende a sinistra, rafforzata da altre gocce che arrivano dopo di lei e le danno vigore. Ora sono un piccolo rivolo che cade fra le palpebre e brucia gli occhi, inumidendoli. Quando infine giunge in bocca sembra una lacrima che insegue un ricordo, pianta per amore. E forse lo è…
Me la lecco. E’ aspra, come un sentimento non condiviso.
Il vento caldo intanto fa la sua parte. Sale dai piedi; sorvola le gambe; si adagia sulle curve del ventre e dei seni; entra nelle narici ed infine scompiglia i capelli sudati, piacevolmente. E’ una coccola inaspettata, una mano amica che accarezza il mio corpo nella solitudine della piscina.
Mi lascio andare ai pensieri. Un’orgia di trasudate, sfilacciate e sognanti emozioni mi risucchia: vane raccomandazioni di stabilità emotiva inascoltate dal cuore, leale servo del pathos. Ora piango, non sudo.
Poi silenzio. Quasi sonno.
Ore 12 a.m.
Improvvisamente l’altoparlante prende vita, ed inizia a sputare le note di una canzone alla moda di qualche anno fa: “I come home in the morning light, my mother says when you gonna live your life right. Oh mother dear we’re not the fortunate ones, and girls they want to have fun. Oh girls just want to have fun!”. Una fiumana di donne mature, capitanate da una ragazza con una tuta fucsia che ferisce gli occhi, arriva vociando in piscina, come uno stormo di uccelli impazziti; sento distintamente l’odore delle loro creme solari e dei costosi profumi per il corpo. Con fare veloce e sgraziato si spogliano dei caftani e si gettano in acqua. Spio di nascosto i loro costumi, troppo colorati, e che coprono a malapena delle forme non più sode né fresche; quarantenni mezze nude in mostra, come filetti sul bancone del macellaio; mancanza di stile, mi dico, ad una certa età dovrebbero vietare il bikini per legge.
La loro capa sgallettata ora urla e le incita ad iniziare la lezione di acqua-fitness, richiamandole all’ordine col
suono stridulo di un fischietto: “Uno, due, tre, quattro…su, su…cinque, sei, sette, otto…forzaaaa!!!”. Le osservo, mentre smuovono litri d’acqua e chili di ciccia, e rifletto che forse dovrei stare lì con loro, ad agitarmi e sudare sotto il sole cocente. Sono mamme come me, e donne della mia stessa età; nell’essenza fisica siamo pressoché identiche.
Le guardo….tristi culi decadenti.
Ci faccio un pensiero…
Poi infine concludo: idiota, non ti ci vedo proprio a ballare in piscina!!
Come in risposta ai miei pensieri e quasi sbeffeggiandomi, la musica si fa sempre più assordante. “ Some boys kiss me, some boy hug me, I think they’re ok. If they don’t give me proper credit I just walk away… Living in a material world and I am a material girl. You know that we are living in a material world and I am a material girl!”. Di male in peggio, rifletto, il mondo è pieno di donne che fanno colazione da Tiffany, e automaticamente canto “Diamonds! Diamonds! I don’t mean rhinestone! But diamonds are girl’s best friend”.
Prendendo spunto dalle pagine del buon Charles, che ora giace adagiato sulle mie coscie -cosa che
immagino avrebbe gradito moltissimo- ho un solo pensiero: “Umanità, mi stai sul cazzo da sempre. Ecco il mio motto”.
Mi devo assolutamente inventare qualcosa, mi dico, o la vita del Faarana Reef Resort mi ucciderà.
Martedì. Ore 9 a.m.
Ieri sera in tv ho visto un film, “Lara Croft: tomb rider”. Cinematograficamente non mi sento per nulla arricchita, ma in compenso ho capito cosa sarà a salvarmi dalla noia di questa lunga vacanza: l’archeologia. Scendo nella hall e mi connetto; il Web mi dà un rinnovato senso di euforia e di libertà; dicono che internet sia la nuova frontiera di questo secolo, e probabilmente è la verità. Digito, leggo, scarico, ed infine stampo velocemente quanto mi interessa, poche pagine di schemi e disegni, delle mappe che utilizzerò per orientarmi nella mia visita. La mia meta è il tempio di Luxor, ed io intendo decodificarlo con le tavole di un atlante di anatomia, una carta astrologica del corpo umano della fine del 1400, e degli schemi di Schwaller De Lubicz, il famoso egittologo.
Quando ormai è tutto chiaro nella mia testa, parlo con lui, onestamente.
– Senti io mi sto annoiando… Non te la prendere, non è una cosa personale… E’ la vita del villaggio che non mi si addice…molto…non mi si addice molto, ecco…
Silenzio.
– Avrei deciso di andare un paio di giorni qui vicino…a Luxor… Cioè, non è che sia proprio vicinissimo… Giusto qualche centinaio di chilometri da Sharm… più o meno… Con l’aereo comunque ci vuole un attimo…
Ancora silenzio.
– Che ne dici? Pensate di potercela fare da soli?. Silenzio assenso.
Sono in volo sopra il mar Rosso. E’ tardo pomeriggio, quasi l’imbrunire.
Ho un vago sentimento di tristezza misto ad un senso di colpa, anche se in tutta sincerità credo che al mio ritorno troverò il bambino ancora in vita ed in buona salute. A scanso d’equivoci ho lasciato dietro di me una lunga scia di medicinali: tachipirina, antibiotico intestinale, fermenti lattici, integratori, vitamine. E creme: protezione solare 50, latte doposole all’aloe, crema per le labbra, shampoo e docciaschiuma neutri. Non sono una mamma del tutto snaturata, mi dico, e cerco di convincermi che sopravviveranno anche senza di me… Cerco…appunto… In realtà ho un nodo in gola.
Mi volto. Vicino a me una giovane coppia si bacia con trasporto. Li spio di nascosto pensando a come è bello starsene abbracciati ed essere innamorati. Io non lo sono più da tanto tempo ormai e provo invidia; non vivo più esperienze in merito, ho solo lontani pensieri sbiaditi nella nebbia di una memoria vacillante.
Mi rigiro, mentre una lacrima più che salata mi attraversa il volto. Disperatamente stringo i denti ed
accenno una canzone: “T’aggio voluto bene a te! Tu m’è voluto bene a me! Mo nun ce amammo cchiù, ma è vote tu, distrattamente pienze a me!”. Apro i cassetti dei ricordi e scelgo un vecchio amore a cui dedicarla; un lamento si reprime in bocca, sbiascicato e sordo: la solitudine fa davvero male.
Sospiro.
Come il caro vecchio Charles decido di affogare i miei dispiaceri nell’alcool, e mi faccio portare un vino
bianco ghiacciato, mentre osservo l’ovest ed il tramonto bruciante a cui sto andando incontro.
Il vino fa veramente schifo. Sospiro di nuovo.
Che avrebbe pensato Charles in questo caso?
Giovedi, ore 6 a.m. Luxor.
Risveglio brusco dopo una nottata agitata; i sensi di colpa sono arrivati ad insidiare i miei sogni, producendo solo incubi. L’allarme del mio cellulare gracchia laconico sul comodino, cercando di imitare una rana in una serata d’estate, adagiata su di una foglia, alla frescura di un laghetto mitteleuropeo. Il risultato è grottesco, considerando che siamo in un paese semidesertico, e magari le rane in Egitto nemmeno esistono…si seccherebbero immagino…o forse no.
Accendo la tv, sintonizzata su MTV dalla sera precedente. Parte Hotel California. “On a dark desert highway,
cool wind in my hair. Warm smell of colitas, rising up through the air. Up ahead in the distance, I saw a shimmering light. My head grew heavy and my sight grew dim. I had to stop for the night”. Improvvisamente sono negli States, indosso un paio di blu jeans, dei camperos sporchi di terra, e una canotta nera, vecchia e sdrucita. Mi chiamo Jane, sono una ragazza madre, e faccio la barista in un vecchio motel, turno di notte, per guadagnare qualche dollaro in più, la vita è cara. Sono stata violentata da mio zio paterno all’età di 12 anni, e da allora odio tutti gli uomini. E’ per questo che la mia fidanzata si chiama Violet, ed è una dolce creatura di sesso femminile, delicata come una rosa, tenera come una fragola, e profumata come una pesca. Conviviamo da tre anni, in un piccolo appartamento sopra lo spaccio dei cinesi, proprio davanti alla Chiesa avventista del settimo giorno; il pastore ci tollera. Mia figlia Suzy Lou è il frutto di un’ubriacatura di quando avevo sedici anni; il padre non ricordo chi sia, forse Nick quello che ora fa il camionista, oppure Joe, l’idraulico; in effetti assomiglia ad entrambi…
Per fortuna Hotel California snocciola le sue ultime note, chiudo con gli States e ritorno me stessa. Sono
passati solo dieci minuti dal gracidare assurdo della rana. La musica ora è cambiata, i Depeche Mode suonano una canzone bella e cruda “It’s a competitive world. Everything counts in a large amounts. The grabbing hands, grab all they can. Everything counts in large amounts”. Mi giro su di un fianco e ordino al mio corpo di alzarsi dal letto.
Mentre faccio la doccia penso: ma sono davvero le grosse quantità a determinare il valore delle cose?
8 a.m., Tebe, riva orientale, alto Egitto.
Esco dal mio hotel, il Nefertiti, e mi dirigo a piedi nella zona archeologica, sotto un sole invadente e munita delle mie preziose mappe. Ho buttato giù anche qualche appunto, rubandolo dagli scritti di De Lubicz, uno studioso sui generis, la cui interpretazione simbolista dell’architettura viene ancora – e a torto – rifiutata nei circoli dell’egittologia ortodossa. Egli parte dal presupposto che nell’antico Egitto la costruzione dei complessi religiosi fosse una tecnica che seguiva regole ben precise, poiché il tempio veniva considerato un luogo altamente energetico, un collegamento fra la dimensione umana e quella spirituale, e dimora indiscussa per il Sacro. Di fatto la sua edificazione era appannaggio della Teocrazia faraonica, e veniva considerata un’arte segreta ed iniziatica. Persino il luogo del suo innalzamento non era mai scelto casualmente, ma seguiva indicatori specifici; poiché il tempio funzionava come un contenitore ed un attivatore di forze naturali, esso veniva sempre eretto in luoghi carichi di energie cosmiche e telluriche, dei posti particolari del pianeta in cui il Cielo si incontrava con la Terra, e che di solito corrispondevano a edifici religiosi precedenti.
De Lubicz riteneva inoltre che il tempio fosse un vero e proprio Libro, il cui intento era quello di tramandare
un insegnamento esoterico non altrimenti descrivibile. Col termine “esoterico” egli indicava “ciò che non può essere trasmesso chiaramente”, negando pertanto che vi fosse una palese volontà di “nascondere” qualsivoglia cosa da parte dei costruttori, quanto piuttosto si dovesse parlare di una inettitudine intellettiva in chi doveva decifrare e comprendere la cosa in sé.
Con i suoi studi egli ha evidenziato come il tempio di Luxor sia di fatto una raccolta di conoscenze architettoniche, simboliche e matematiche estremamente precise, in cui i simboli si fanno corpo e pietra ed in cui le immagini intessono un fitto racconto; in particolare il complesso sacrale ricostruirebbe esattamente uno scheletro umano, perfettamente riprodotto in ogni dettaglio anatomico e che va dai piedi sino alla calotta cranica, riflettendo minuziosamente il sapere dell’antica medicina egizia. Nel caso specifico, l’intento didattico degli edificatori rimanda al precetto delfico “uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’Universo e gli Dei” poiché, come sostenuto dalle maggiori scuole religiose, filosofiche ed esoteriche di tutti
i tempi, è impossibile imparare altrove una qualsiasi cosa di se stessi, se non si è in grado di impararla Nel e
Dal proprio corpo. L’uomo è di fatto la condensazione materiale di tutte le potenzialità e le funzioni dell’Universo in uno specifico piano spazio-temporale, e pertanto “ l’Uomo è della Natura; l’Uomo è nella Natura, e la Natura e l’Uomo sono Uno”.
Nell’insegnamento templare faraonico, gli organi del corpo sono i simboli di funzioni vitali che rimandano a
loro volta a particolari idee e concetti della Coscienza universale: in altri termini essi sono la cristallizzazione in forme tangibili del Verbo divino, il Logos attraverso cui tutto è stato creato. “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (Sant’Agostino).
De Lubicz asseriva pertanto che la scienza faraonica è “vitale” ed in quanto tale è al servizio dei simboli e dell’insegnamento esoterico, il tutto a discapito dell’Estetica. Ciò è massimamente messo in risalto nel tempio di Luxor che presenta evidentissime asimmetrie, e risulta essere “storto” rispetto al suo asse che, da sud a nord, non cessa mai di deviare; “l’Egitto faraonico ha orrore della simmetria…come la Natura ha orrore del vuoto”.
Questo particolare modo di costruire crea un’evidente percezione di “movimento” in chi visita il complesso
architettonico, dando davvero l’impressione di trovarsi all’interno di un organismo vivente: il tempio è dinamico e mai statico. In effetti osservando la cartina risulta palese che esso è stato costruito su tre assi distinti, e che ogni singola sala, o colonnato, o muro che lo compongono, appare rigorosamente allineato di volta in volta su uno di essi; nonostante ciò il visitatore non appare disturbato, e camminando fra le rovine riesce a percepire Armonia e Bellezza ad ogni passo, come se il tempio pulsasse e si spostasse con esso, in un movimento perpetuo.
Arrivo finalmente al tempio, dopo aver percorso alcune centinaia di metri di cammino in mezzo al traffico caotico di Luxor, schivando motocicli, macchine con pittoreschi cassoni che si improvvisano a jeep, ed alcune capre che camminano ignare del pericolo ai bordi della strada. Alla biglietteria rifiuto con decisione la guida di un egiziano claudicante, sfoderando la mia peggiore espressione facciale, un premio oscar di pura antipatia. Dei francesi mi guardano di sottecchi, commentando aspramente la mia indisponenza nei confronti dello zoppo, ma io basto a me stessa e voglio restare da sola; ho tutto quello che mi serve per effettuare la visita, e non intendo perdere né tempo né soldi ascoltando notizie preconfezionate. Il mio “guru” in questo momento è De Lubicz e voglio che siano il suo pensiero e il suo studio a guidarmi.
Biglietto alla mano mi incammino lungo il viale delle Sfingi, molto lentamente, gustandomi l’esperienza pressoché psichedelica provocata dalla ripetizione della stessa immagine svariate volte, e che produce un effetto quasi ipnotico nel visitatore. Le Sfingi escavate sono circa un’ottantina, hanno testa umana, e rappresentano il volto di Amenhotep III, colui che eresse il tempio; il corpo leonino è invece un chiaro rimando al principio solare, emblema di forza e virilità, e simbolo regale; Amenofi III è conosciuto come il Re Sole della XVIII Dinastia.
Il viale termina al cospetto di un imponente pilone, decorato con le scene della celebre battaglia di
Quadesh; anche in questo caso la lettura dell’egittologia ortodossa, che vi vede la rievocazione storica del conflitto fra gli egiziani di Ramesse II e gli hittiti di Muwatalli II, si contrappone ad una lettura esoterica che interpreta la battaglia come una rappresentazione simbolica della lotta perenne fra il Bene e il Male, fra la Luce (Ramesse = la nascita di Ra, in cui Ra è il nome del Dio-Sole di Eliopoli) e le Tenebre, lotta che coinvolge l’uomo durante tutto il percorso della sua esistenza.
Supero la battaglia di Qadesh, lasciando che le forze del Bene si occupino di contrastare il Maligno, e mi
insinuo nel cortile del tempio, fra le gambe dell’ipotetico uomo che si trova adagiato dinnanzi a me. A livello anatomico ci troviamo fra il piede ed il ginocchio, ovvero nell’arto inferiore, l’appendice del corpo umano preposta alla locomozione. Architettonicamente i costruttori hanno evidenziato tale concetto ponendo ai lati della corte delle enormi statue di Ramesse II in atto deambulatorio, reppresentato con un piede davanti all’altro, e che danno l’idea di movimento; simbolicamente siamo dinnanzi al Grande Marciatore che misura a passi l’intera Creazione. Apro la mappa astrologica relativa al corpo umano che giace spiegazzata e muta infondo alla zaino, e verifico i segni zodiacali corrispondenti: ai piedi sono attribuiti i Pesci, animali “fluidi”, “oscillanti” e mobili per eccellenza; alla tibia e al perone l’Aquario, segno d’Aria, un elemento questo che circola ovunque nello spazio e rimanda pertanto ad un concetto di moto perenne; ed infine alle ginocchia il Capricorno, una bestia montana che per sua natura preferisce arrampicarsi in località scoscese, marciando a testa alta ed indifferente alla fatica ed agli ostacoli.
“Tutto ha un senso” mi dico, “ogni cosa è giusta e perfetta””.
Proseguo lungo il colonnato di Amenhotep III. Secondo lo schema di De Lubicz dovremmo trovarci in corrispondenza del femore. Mi guardo intorno, cercando un elemento simbolico di rimando, e lo trovo ancora una volta: sulle mura laterali è rappresentata la processione di Apet, durante la quale le barche della triade tebana Ammone-Mut-Khonsu lasciavano il tempio di Karnak per dirigersi a Luxor, e per poi farvi ritorno. La funzione di spostamento legata alla gamba viene di nuovo ribadita e si collega perfettamente col segno zodiacale del Sagittario, che qui “governa”, e che evoca in maniera palese un’immagine di corsa e di movimento.
Lascio il colonnato e procedo, mischiandomi alla folla di turisti che si sta riversando nel complesso
archeologico, come una fiumana umana. Sono le nove.
Mi trovo ora nel peristilio di Amenhotep III, una grande corte circondata da colonne. Secondo De Lubicz siamo nella parte del tempio che corrisponde al tronco, e dovremmo pertanto trovare traccia degli organi preposti ad alcune delle maggiori funzioni del corpo umano.
Mi sposto verso il muro esterno del cortile, e mi fermo vicino ad un gruppetto di donne americane
sessantenni che rimirano a bocca aperta un enorme incisione di Ammone itifallico. “Oh my god!!”. Siamo evidentemente al livello degli organi sessuali, ed io ridacchio guardando le signore che esprimono ammirazione per il membro maschile posto in bella mostra. Mi dirigo all’ombra e apro una delle mie mappe. Astrologicamente siamo nella casa dello Scorpione, un segno che corrisponde ai genitali, al sesso e alla funzione riproduttiva. Esso viene tradizionalmente messo in relazione con la morte e la rinascita, ed è presieduto da Plutone e da Marte, due pianeti che rimandano entrambi ad un concetto di virilità: nella simbologia fisico-anatomica al primo vengono attribuiti i testicoli ed il liquido seminale, mentre al secondo il pene e l’erezione. Improvvisamente ricordo di aver letto da qualche parte che lo scorpione, durante l’accoppiamento, compie una strana danza sessuale, con la quale il maschio seduce la femmina della sua specie afferrandola con le chele e spingendola ripetutamente avanti e indietro. Guardo le americane e le immagino giovani, ed intente a ballare per i loro uomini in un intrigante gioco di seduzione. Le osservo a fondo: con le loro rughe non stiracchiate sono ancora delle bellissime donne.
Scatto una foto ad Ammone, in onore della fertilità, e riparto. Saluto le americane con una mano, e
strizzando loro l’occhio me ne vado canticchiando le strofe di una canzone che amo: “La stagione dell’amore, viene e va. I desideri non invecchiano quasi mai, con l’età”.
Continuo il giro esterno, e passo velocemente dinnanzi alle dodici vertebre dorsali rappresentate sulla facciata occidentale del muro, e simboleggiate da una processione di tredici aurighi. Secondo l’interpretazione di De Lubicz ci troviamo nel punto in cui il midollo spinale, posto all’interno delle dodici vertebre dorsali, penetra la prima vertebra lombare (12+1): iconograficamente ciò viene rappresentato da tredici cavalli, ciascuno dei quali tiene una zampa anteriore in fuori, mentre l’altra penetra nella ruota del carro posto dinnanzi a sé, dando l’idea serpentiforme della spina dorsale.
“Davvero geniale!” esclamo ammirata.
Rientro nel tempio, ormai sudata, assetata e quasi stanca. I corpi nati nelle regioni temperate del pianeta, mal sopportano il caldo dei deserti, ed io trascino i piedi e sbuffo, torturando incessantemente i miei capelli che ora si raccolgono e poi si sciolgono di nuovo, seguendo il volere capriccioso delle mani.
A metà del peristilio, all’incirca nel punto che coincide con l’ombelico, vi è un architrave con un’iscrizione:
“E’ qui il vero luogo della nascita del Re, dove egli ha trascorso la sua infanzia e da cui si è allontanato, incoronato”; un chiaro riferimento al cordone ombelicale che “lega” fisicamente e psicologicamente madre e figlio.
Astrologicamente ci troviamo sotto il governo della Vergine, il segno zodiacale che corrisponde all’addome e alle funzioni digestive; come tutti i segni di Terra essa viene associata alla stabilità e alla concretezza, e presenta una spiccata propensione per tutto ciò che riguarda la famiglia ed i figli, confermando in pieno la simbologia del cordone ombelicale.
Ancora pochi passi ed entro nella sala ipostila, ovvero nel torace del mio uomo, il luogo dove si trovano
cuore e polmoni. L’architettura egizia fa qui ricorso alla simbologia celeste, e associa gli organi ai luminari maggiori, facendo corrispondere il sole al cuore e la luna ai polmoni, seguendo peraltro la tradizione dell’astrologia classica.
Le funzioni respiratorie di inspirazione ed espirazione sono rappresentate dalle fasi lunari incise sul
pavimento, alla base delle colonne. Così come il satellite, nel suo perenne divenire, appare ora come un “pieno” e successivamente come un “vuoto”, così il polmone si riempie e si svuota di aria, in un incessante moto che accompagna l’intera esistenza, dalla nascita sino alla morte.
In astrologia i polmoni sono governati dai Gemelli, un segno che iconograficamente rimanda all’apparato
respiratorio, e che è presieduto dal dio alato Mercurio, una divinità indissolubilmente legata all’elemento
Aria ed alle sue peculiarità. Ore 10.
Mi sposto ora nella Camera della Nascita, un tempio coperto e che nell’antichità era accessibile solo agli alti
sacerdoti egizi; a livello anatomico siamo nella gola, all’altezza delle corde vocali.
Sulla parete occidentale è raffigurata la nascita “divina” del Faraone, che si contrappone alla nascita “fisica”
di cui si è già trovata presenza nell’architrave posto nel ventre.
Esotericamente siamo dinnanzi al “mistero” della creazione tramite il Logos, la parola divina; la teologia menfita insegna che il Dio sole Ra (emblema dello spirito), si esprimeva attraverso Thot il “Mago” (il dio della parola e della conoscenza), e per mezzo di Ptah (la liongua). Secondo tale dottrina, il mondo e tutti gli esseri viventi furono creati da Ptah e dalla sua voce, quale diretta emanazione del potere del suono divino. In effetti in tale raffigurazione il concepimento di Amenhotep III e la sua successiva nascita, sembrano di origine spirituale, e dovute all’intervento diretto di numerose divinità quivi rappresentate (Iside, Khnum, Ammone, Selkis, Neith, Thot, Horus e Hapi). Questa doppia nascita è chiaramente cosa diversa da quella fisica, e serve a ribadire che il Faraone è il figlio di Dio, ed in quanto tale Uomo Regale, Uomo Conscio e pienamente realizzato.
In astrologia la gola è governata dal Toro, il cui simbolo grafico può evocare l’idea di una bocca spalancata,
ovvero la forma dell’apparato genitale della donna. Essendo questo un segno prettamente femminile, è fortemente legato alla famiglia ed in particolar modo alla maternità, accordandosi perfettamente con quanto rappresentato nella sala della Nascita.
Ore 11.
Sto arrivando in prossimità della scatola cranica, alla terminazione del tempio, il punto che corrisponde all’apice dello scheletro e che indica la fine del mio viaggio. Mi avvicino a grandi passi alla sala a 12 colonne, ormai stanca e completamente rivestita da una leggera patina di polvere che fa di me un’antichità classica, una statua, un pezzo di storia.
Apro la mappa e verifico: mi trovo nel luogo che corrisponde al centro ottico e al corso del Sole. Nell’antico
Egitto il Sole veniva considerato l’occhio di Ra, “colui che tutto vede”, una delle maggiori divinità dell’enneade eliopolitana, e creatore stesso dell’Universo. La mitologia che concerne il Dio è pertanto indissolubilmente legata al moto dell’astro, quale esplicito riferimento al suo periplo nella volta celeste: Ra si leva nelle regioni orientali e sale nella barca del Giorno, con la quale attraversa i cieli per 12 ore; successivamente si trasferisce nella barca della Notte e con essa percorre le regioni infere, per le 12 ore restanti.
Effettivamente nella sala troviamo un evidente rimando alla simbologia Est-Ovest, con la quale ci si vuole
riferire non solamente al percorso del luminare maggiore nel cielo (le 12 colonne emblema delle 12 ore), ma molto più sottilmente vi è un’allusione al viaggio dello Spirito stesso: questi dapprima si calerebbe nel mondo assumendo forma fisica, e successivamente verrebbe a trovarsi nella condizione di ascendere nuovamente nelle regioni spirituali, sgrossando la grezza materialità acquisita. Questa incessante trasmutazione delle forme viene magistralmente rappresentata nell’architrave posto all’entrata della sala dove troviamo due avvoltoi: quello che si trova ad Est appare accennato e pressoché incompiuto, tranne per la zampa e l’artiglio destro, con i quali afferra e si ancora nel mondo (lo spirito che diviene carne, l’alba, il primo vagito del giorno); di rimando quello che si trova ad Ovest è completo tranne che per l’artiglio e la zampa sinistra, a simboleggiare il tramonto ed il passaggio “liminare” in un’altra dimensione (spirito che lascia il corpo, morte del giorno).
La stanza successiva, l’estremità meridionale della costruzione, è costituita dal Santuario triplo, quale
plausibile tentativo di rappresentazione in pietra della Trinità stessa, e rimando fisiologico alle tre ghiandole endocrine del cervello (la pineale, la pituitaria anteriore e la pituitaria posteriore). Queste ghiandole in effetti non vengono menzionate casualmente: per quanto ancora poco comprese dalla medicina ufficiale stessa, secondo la fisiologia occulta esse corrisponderebbero di fatto al “terzo occhio”, il punto nodale di collegamento col Divino, e la sede dei poteri occulti dell’uomo (intuizione, chiaroveggenza, telepatia, eccetera).
Analizzando le mappe noto un’anomalia: sovrapponendo la pianta del tempio a quella dello scheletro, una porzione di questo, corrispondente alla parte terminale della scatola cranica, rimarrebbe inspiegabilmente fuori dal perimetro… “Un errore così grossolano da parte di costruttori tanto raffinati ed eleganti è assolutamente da escludere!” mi dico.
Cerco conforto negli studi di De Lubicz, e trovo una spiegazione davvero interessante: la frazione della scatola cranica esclusa conterrebbe le parti del cerebro che presiedono all’Ego, ovvero alla Volontà e alla Personalità. Avvalorando tale ipotesi si giunge alla conclusione che il tempio di Luxor raffigura non l’uomo quale noi lo conosciamo, bensì l’uomo pre-adamitico, ossia l’uomo prima della Caduta dallo stato paradisiaco primordiale. Di fatto, esotericamente, la Caduta rappresenta la discesa dello Spirito nella Materia, ovvero l’acquisizione della Volontà e del libero arbitrio (individualizzazione); prima di tale evento l’uomo viveva in una sorta di stretta simbiosi con Dio, e la sua volontà in quanto s oggetto non esisteva poiché corrispondeva pienamente a quella del Padre. Da ciò si deduce che il tempio di Luxor è la rappresentazione su pietra dell’Uomo quale principio Divino, e non come un semplice anello della catena evolutiva del regno animale.
Astrologicamente ci troviamo nella casa dell’Ariete. Questo segno è il primo dello zodiaco, e governa la testa (scatola cranica e tutti gli organi in essa contenuti) e le prime due vertebre cervicali; energeticamente è un segno maschile, dotato di una spiccata volontà, creatività, forza, razionalità e determinazione, tutte caratteristiche dipendenti da forti impulsi decisionali e quindi cerebrali: il suo motto è “io sono”. A livello iconografico il glifo dell’Ariete riporta una similitudine estremamente significativa con la molecola del DNA, l’acido desossiribonucleico responsabile della trasmissione e della duplicazione dell’informazione genetica che è all’origine della vita. Questo particolare legame che unisce la testa, le peculiarità dell’Ariete e il DNA, sembra avvalorare uno dei più grandi insegnamenti ermetici di tutti i tempi: la mente crea la materia e l’intera realtà.
Sono quasi le 12. Ormai sfinita e definitivamente sporca, ciondolo fra le rovine, trascinandomi pesantemente e ripercorrendo l’intero tragitto a ritroso. L’esperienza nel tempio è stata forte e sostanzialmente enigmatica: solo ora capisco di aver fatto un viaggio dentro me stessa.
Mano a mano che procedo aumento progressivamente il passo in cerca di un qualcosa da bere che mi
sfugge come un miraggio. Mi sento prosciugare e ardere; evaporo sotto un sole incandescente che sembra seguirmi senza tregua, quasi fosse una resa dei conti personale.
Niente bar all’orizzonte. Inizio a vedere sfuocato. Forse cadrò a terra.
Le tempie pulsano e comprimono.
Quando non ho più pensieri, sento un suono lontano, che sembra provenire dalle profondità del mio zaino.
E’ il cellulare, rispondo.
– “Ciao mamma. Dove sei?”.
– “Sto arrivando, tesoro. In realtà sono sempre stata lì con te”.
– “Mi manchi…”.
– “Anche tu, tanto”.
Pausa.
Ora posso sorridere e respirare di nuovo.
L’amore mi disseta.
“Ciao Marina, piccola mia: ogni volta che mi telefoni, è così bello sentire la tua voce. Hai la voce più bella del mondo. Ti ringrazio tanto per le telefonate che mi fai. Sto sempre bene per giorni e giorni, dopo che parli con me. E sento che ti rivedrò, un giorno, e questo mi dà forza per andare avanti. Qualche volta quando mi sento male penso a te e mi sento subito meglio. Per favore stai molto attenta quando attraversi la strada, guarda da tutte e due le parti. Io ti penso sempre e ti amo più del cielo, più delle montagne, più dell’oceano, più di tutto e di tutti. Per favore, stai bene, sii felice e non preoccuparti per me.
Con tutto il mio amore, piccola,
Hank”
(lettera di Charles Bukowski alla figlia Marina Louise)
2 commenti
Articolo ben scritto e bella descrizione di luoghi e siti archeologici. L’unica cosa con cui non sono d’accordo è ritenere De Lubitz ‘snobbato’ dagli egittologi come se fosse un archeologo fuori di testa. De Lubitz era un esperto di esoterismo e non aveva mai studiato nè archeologia nè egittologia, era stato solo residente in Egitto per dodici anni. Da lì il fatto che non è mai stato preso sul serio a livello accademico, anche se i suoi studi sono parzialmente usati per la comprensione dell’universo religioso degli antichi egiziani.
Una nota… La prima foto dell’Egitto ‘archeologico’ è il tempio di Abu Simbel, che non è più sul luogo originario dove era stato costruito dopo la costruzione della diga di Assuan.
Gentilissima MerlinC la ringrazio per aver apprezzato il mio racconto. Vorrei specificare che personalmente apprezzo molto gli studi di De Lubitz, trovandolo geniale, coraggioso, innovativo. Indubbiamente non viene considerato un archeologo “ortodosso” ma ciò non sminuisce affatto la sua grandezza; sicuramente la lettura delle sue opere non è per tutti…