Dall’incontro con Irene Bemmi nasce l’idea di aprire questo nuovo spazio di Dols su “Educazione di genere”
Ho conosciuto Irene in occasione delle due edizioni del festival Donna e Salute e fin dalla prima volta, sono rimasta affascinata e incuriosita dalle sue interessanti ricerche sull’educazione di genere.
Da qui nasce l’idea di aprire questo nuovo spazio di Dols su “Educazione di genere” partendo proprio da un’intervista a Irene Biemmi, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia dell’Università di Firenze.
Irene, da molti anni ti occupi di studi di genere e in particolare, di educazione di genere. Da dove nasce l’interesse per questo ambito?
Nasce nel periodo di studi… in realtà, dal liceo quando lessi “Dalle parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti. Poi ho studiato Scienze della Comunicazione all’Università di Siena e mi sono resa conto che il tema delle differenze di genere era assente nel programma accademico. Da lì è partito il mio interesse ad approfondire. Ho lavorato molto in autonomia e poi ho iniziato un dottorato di ricerca all’Università di Firenze nel 2004.
Le tue ricerche hanno riguardato anche i libri di testo, di cui parli nel tuo libro “Educazione sessista” (Rosenberg & Sellier, 2011). Cosa ci puoi dire al riguardo?
Nell’immaginario veicolato nei libri di lettura delle elementari c’è un grande spartiacque: il mondo maschile è quello che primeggia. Ad esempio, a livello quantitativo, i protagonisti delle storie sono prevalentemente maschili e questa discrepanza è indicativa di un atteggiamento più profondo, ovvero di una sovrastima di un genere sull’altro. A livello qualitativo, la figura femminile tuttora rappresentata nei libri di testo, lava, stira, cucina…
Il problema è che questa rappresentazione del mondo è fruita sia dai bambini che dalle bambine, ed è un aspetto trasversale ai vari cicli di studio. Sarebbe interessante capire cosa comporta questo nel modo in cui gli alunni dei due sessi si rapportano ai saperi: infatti i bambini si rispecchiano pienamente nella cultura trasmessa a scuola (ne sono i protagonisti!); e le bambine?
In merito agli studi di genere, a che punto è l’Italia? Si sta investendo in questo settore?
Dagli inizi del 2000 ad oggi sono stati fatti passi in avanti.
Gli studi di genere hanno una lunga tradizione in ambito storico e filosofico; mentre a livello pedagogico, iniziano negli anni ’70 e ’80 ma si tratta di un sapere di nicchia… e ciò trova conferma nella trascuratezza che si riscontra nei libri di testo come anche nell’assenza di formazione degli insegnanti in materia.
La scuola si può considerare un “ambiente di parità”?
Nei riguardi della scuola, si ha una percezione distorta: si pensa che sia un contesto privilegiato, in quanto le bambine hanno l’opportunità, alla stregua dei bambini, di andare a scuola e secondo i dati statistici, riescono addirittura meglio. Inoltre il corpo docente è prevalentemente femminile, e anche questo contribuisce a far credere che la scuola sia un ambiente protetto da discriminazioni sessiste.
In realtà, la scuola non offre parità fra i due sessi, perché l’educazione indirizza verso una segregazione formativa, come si evince dalla scelta di studi alle scuole superiori e all’università: i maschi prediligono l’ambito tecnologico e scientifico, guarda caso ambiti vincenti a livello lavorativo e anche socialmente valorizzati. Al contrario, le femmine sono maggiormente orientate verso la cura e l’educazione e quindi verso studi e poi lavori che hanno un minor riconoscimento sociale ed economico.
Pertanto il semplice accesso all’istruzione non garantisce parità di opportunità nella vita sociale e lavorativa.
A scuola agisce un curriculum nascosto. Le aspettative degli adulti sono diverse nei confronti dei maschi e delle femmine: alle ragazze si chiede di introiettare il modello della conciliazione (fra lavoro e famiglia), ai maschi si concede libertà (di investire pienamente nel proprio lavoro e nella realizzazione personale).
Dai tuoi studi, che cosa emerge in merito all’idea di “maschile” e “femminile” che hanno bambini e bambine?
L’idea che hanno è la naturale conseguenza di ciò che gli adulti insegnano loro.
Quest’anno ho svolto attività di formazione e di ricerca con bambini della scuola d’infanzia e primaria. Ho chiesto loro di interrogarsi sulle parole “maschiaccio” e “femminuccia”: mi interessava sapere se avevano avuto esperienza in tal senso.
Le bambine ammettono con serenità e tranquillità di essere state appellate “maschiaccio”, mentre pochi bambini riferiscono di essere stati chiamati “femminuccia”. Questo è significativo: il concetto di “maschio” ha un valore positivo nella nostra società per cui l’appellativo di maschiaccio per una bambina può risultare addirittura qualificante: significa che è movimentata, forte e sfrontata e ciò è giudicato positivamente; mentre per un bambino il termine “femminuccia” assume una valenza dispregiativa e in taluni casi è associato addirittura ad un fattore predittivo di una futura omosessualità.
L’aspetto sorprendente è la precocità con cui i bambini captano questi due mondi ben distinti e con caratteristiche assolute, e il bisogno di aderire al genere di appartenenza, con conseguente limitazione alla libera espressione personale.
In virtù di quanto emerso dai tuoi studi, quali sono i punti critici su cui intervenire per promuovere un’educazione alle differenze di genere che possa contrastare gli stereotipi ancora esistenti?
Secondo me si possono individuare tre ambiti chiave su cui investire:
1. revisione radicale dei libri di testo, perché se i libri di testo rimangono questi, costituiscono un freno per un’azione efficace delle/degli insegnanti;
2. formazione specifica e sensibilizzazione all’educazione di genere di tutto il corpo docente, dalla scuola d’infanzia all’università. Chi a che fare con i soggetti in formazione deve essere dotato di lenti di genere con cui guardare la realtà. All’università di Firenze c’è un corso specifico di Pedagogia di genere e delle pari opportunità; pochissimi atenei hanno corsi similari, anche se negli ultimi anni sono in aumento.
3. ripensamento del linguaggio che dia visibilità e spessore al soggetto femminile all’interno del discorso, perché la lingua che utilizziamo condiziona il nostro modo di pensare ed è necessario che consenta una rappresentazione equa dei due generi.