La presenza femminile è purtroppo sempre stata alquanto massiccia tra le file dei terroristi islamici. Le palestinesi che abbracciano la causa di Hamas per uscire dalla schiavitù famigliare, prima o poi saranno chiamate anche loro al sacrificio estremo
La jihad islamica contempla la parità di genere. No, non si tratta di un eufemismo ma di una realtà oggettiva, anche se alquanto opinabile. Il gruppo Hamas che controlla la striscia di Gaza, attualmente teatro di un altro
conflitto anti-israeliano, rappresenta un esempio emblematico di questa strana affermazione. Perché in esso non esistono differenze tra uomini e donne. Non più, almeno.
In tempi ancora non sospetti in termini bellici, il leader del gruppo, Ismail Haniyeh (ex primo ministro dell’ANP, aveva infatti avanzato una proposta strategica a suo dire “inedita”, incentrata sulla possibilità di estendere l’accesso alle futuwwa (cavallerie) anche alle donne, che costituiscono il 17,3% della forza lavoro palestinese (a fronte del 69,3% di quella maschile).
Provocazione? Necessità operativa? Possibilità di avere a disposizione un maggior numero di guerriglieri disposti a morire per la causa? Poco importa. Ciò che davvero conta è il consenso immediato degli aderenti ad Hamas.
Il fatto in sé non è una grossa novità: la presenza femminile è purtroppo sempre stata alquanto massiccia tra le file dei terroristi islamici, sebbene alle donne non fosse generalmente mai stato consentito presenziare in modo diretto ai combattimenti (l’unica triste eccezione in tal senso è offerta infatti dal terrorismo ceceno).
Va anche ricordato che prima ancora di Haniyeh il fondatore nonché capo spirituale di Hamas, Sheik Ahmed Yassin, aveva emesso un’apposita fatwa volta proprio all’ammissione incondizionata anche delle stesse guerrigliere
nell’universo degli aspiranti kamikaze, ossia di coloro che accettano di morire nel corso di attacchi suicidi.
Ciò che dovrebbe infondere la maggiore perplessità nel mondo occidentale è l’entusiasmo con cui una certa parte della popolazione femminile palestinese ha risposto alla chiamata. E poco importa se questo entusiasmo si limiterà a rimanere soltanto indiretto o se invece è destinato a concretizzarsi un giorno
in futuri nuovi arruolamenti.
Per molte donne palestinesi l’addestramento militare al pari dei maschi equivale al raggiungimento di un obiettivo ragguardevole che suscita fierezza e orgoglio. E’ un’occasione imperdibile per poter ricoprire un ruolo sociale, per
poter ottenere uno status diverso da quello che condanna le altre a semplici schiave domestiche, prive di diritti e oberate di doveri. Un tentativo estremo per sentirsi finalmente qualcuno.
Essere considerate uguali agli uomini, anche sul piano operativo, significa insomma vedersi riconoscere le medesime capacità: un’opportunità troppo ghiotta, agli occhi di molte, per ignorare un simile appello.
Ma è davvero un traguardo da valorizzare? E’ davvero una conquista di cui vantarsi? O è solamente l’ultimo risultato di una lunga serie di manipolazioni psicologiche operate ad hoc dagli oligarchi sui soggetti socialmente più deboli, più indifesi e dunque più vulnerabili?
Haniyeh e Yassin non passeranno certo alla storia per la loro magnanimità. Le proposte apparentemente innovative lanciate da entrambi a breve distanza l’una dall’altra non sono altro che l’ennesima espressione di un maschilismo crescente e dominante in seno a una società oppressa dal rigorismo politico- religioso.
Le palestinesi che si illudono quindi di aver conseguito il successo a livello paritario solo perché d’ora in poi saranno autorizzate a saltare per aria o a morire su un campo di battaglia non hanno capito di essere state ingannate da coloro che – del tutto scevri da remore etiche – non esitano a sacrificare il sacrificabile per poter in seguito adagiarsi sugli allori di un malvagio trionfo..