Il Generale, possente, quasi maestoso, contempla la città capitale. Anita è presentata invece come una giovane donna, combattente e madre.
di Annita Garibaldi Jallet
Nella parte più alta della passeggiata del Gianicolo, i monumenti a Giuseppe Garibaldi e, non lontano, alla sua consorte Ana Maria de Jesus Ribeiro, sollevano alcune considerazioni.
Il Generale, possente, quasi maestoso, contempla la città capitale. L’età è matura, il cavallo ben piantato sulle sue quattro zampe. Il bozzetto di Emilio Gallori fu scelto, nel 1895, proprio per esprimere l’idea di un’Italia riconciliata con se stessa.
Il monumento dedicato ad Anita (versione portoghese del nome) o Annita (versione italiana), secondo il lato dove ci si trova, presenta invece una giovane donna, combattente e madre. Il cavallo con le due zampe alzate è riservato all’eroe morto in guerra, e tale può essere considerata la ritirata verso Venezia dei difensori della Repubblica Romana.
E’ molto provocatorio per i tempi in cui fu ideato. Lo scultore Mario Rutelli lo propose già nel 1906, ma urtò tanto che fu accantonata anche l’idea dell’omaggio alla sposa del Generale.
La curiosità, oltre a questo, consiste nel fatto che la giovane donna è rappresentata non nella Repubblica Romana, che l’ha vista combattente e pietosa verso i feriti, ma in un episodio della vita avventurosa in Sud America, quando, Garibaldi, con lei ed il neonato Menotti, fu in obbligo di fuggire davanti alle truppe dell’Imperatore del Brasile, e lei, rimasta sola mentre il suo José si era allontanato per trovare qualche genere di conforto per la famiglia, dovette nascondersi in foresta con la prospettiva di difendere la propria vita e quella del figlio. Anita è presentata discinta nella fuga, e così la volle Mario Rutelli, che le prestò, secondo la testimonianza del suo pronipote Francesco, il volto della propria figlia, Graziella.
La scelta fu fatta forse perché la partecipazione alla vita e alle lotte di Garibaldi da parte della consorte, sposata a Montevideo il 26 marzo 1842, fu di più lunga durata e di maggiore impegno in Brasile ed in Uruguay. Tuttavia, è altresì possibile che sia stata fatta per rinnovare il legame tra la patria e le comunità italiane all’estero, numerose in America Latina. Di certo tale rappresentazione urtava la morale comune all’inizio del XX secolo.
Urtò persino la famiglia Garibaldi. Ricciotti, l’ultimo nato dei figli di Anita e l’unico ancora vivo dopo il 1903, si oppose strenuamente alla realizzazione del monumento, considerando che al mito del padre una donna che era analfabeta, abituata ad una vita che le rendeva difficile la convivenza persino con la famiglia dei Garibaldi di Nizza, non avrebbe potuto giovare. In alternativa, Ricciotti proponeva un monumento alle donne eroiche del Risorgimento, che le riunisse tutte, da Jessie White ad Adelaide Cairoli, da Catherine Segurane, la nizzarda, alla Mantegazza.
Il fatto sta che il monumento non fu immediatamente realizzato, ma tornò comodo quando, all’approssimarsi del 1932, si dovette cercare come ovviare alla celebrazione di un Garibaldi troppo democratico perché potesse adeguarsi ai fasti del Regime, nonché icona di antifascismo specialmente tra gli italiani all’estero. A parte qualche pregevole opera letteraria, come quella di Giacomo Curatolo o di Gustavo Sacerdote, il cinquantenario garibaldino fu tutto dedicato a lei, ad Anita. Ebbe anche, questa strumentalizzazione, il vantaggio di accontentare parzialmente il dittatore del Brasile, Getulio Vargas, di origine riograndese, il quale chiedeva che la figura dell’illustre conterranea uscisse dall’oblio in cui, secondo lui, la teneva l’Italia, e che i resti mortali fossero restituiti al Brasile. Così iniziò l’uso politico della figura di Anita, strumentalizzazione che non aveva fino allora risparmiato Garibaldi.
Incaricato del tutto fu Ezio Garibaldi, nipote di Anita ed esponente di spicco del Regime, che con l’accordo di politici locali, fece prelevare le spoglie dal cimitero di Nizza, dove riposavano secondo il desiderio espresso dal Generale, vicino alla tomba della madre Rosa, per farle arrivare in un primo tempo al cimitero dello Staglieno a Genova. L’idea era, ovviamente, di trasportare la piccola bara a Caprera, perché Anita riposasse vicino al marito. Ma oltre al fatto che Anita non era mai vissuta a Caprera, il piccolo cimitero privato a fianco dalla Casa Bianca era stato ideato per accogliere Garibaldi, la sua ultima moglie Francesca Armosino e i loro figli. La figlia di Francesca, Clelia, ancora viva e molto battagliera, non era per niente disposta ad accettare la nuova situazione che avrebbe poi aperto la strada al ritorno dei discendenti di Anita nell’isola. Sicché si rivolse direttamente a Mussolini, il quale accolse una soluzione diplomatica che serviva anche il suo interesse: portare le ceneri di Anita a Roma, nello stesso monumento che si andava ad inaugurare e dedicare così a lei le celebrazioni garibaldine.
La posizione del Generale Garibaldi sul suo cavallo cambia allora significato: sembra voltarsi leggermente per guardare l’amata donna che galoppa verso di lui, affascinato, ma altresì interdetto nel vedersi rapire l’interesse della folla in occasione di una celebrazione che era sua.
La celebrazione fu tutta di regime, la piccola bara fu portata da Genova a Roma in treno, con gran tripudio di folla. A piedi la famiglia, seguita da una folla impressionante, accompagnò il corteo dalla stazione al Gianicolo, dove nel palco dei Reali furono accolte le Signore Garibaldi, mentre i familiari rimanevano sotto il podio (vi erano tra loro alcuni Garibaldi – Menotti, Sante, ed altri – noti per non essere favorevoli al Regime).
Dal podio Mussolini consacrò, con poche e per la verità vaghe parole, l’entrata improvvisata della piccola bara nel piedistallo del monumento. La stampa si prodigò nel narrare l’evento. La Chiesa non ne fu soddisfatta, ma la firma del Concordato aveva reso accettabile qualche piccola contrarietà.
Eppure, la presenza di Anita tra gli eroi ricordati sul Gianicolo non avrebbe avuto bisogno di tante giustificazioni. Giunta da Montevideo ancor prima di Garibaldi, che aveva imbarcato la famiglia, assieme ad altre famiglie di garibaldini già dal 27 dicembre 1847, Anita aveva trovato precaria stabilità a Nizza, senza riuscire però ad integrarsi in un ambiente così diverso dal suo e forse ad essere pienamente accettata da Rosa Garibaldi, riverita anche come madre del prestigioso Generale. Furono giorni non facili: i tre bambini certamente suscitavano perplessità, abituati alla vita libera di Calle del Porton, il cambiamento di clima aveva acuito attacchi di malaria, Giuseppe lontano.
Al suo rientro in Italia, il generale la portò con sé ad alcune manifestazioni nizzarde, ma fu preso dagli impegni e dalle tante partenze. Anita s’ imbarcò con lui e con 72 volontari, per liberare la Sicilia, ma si fermò a Firenze per rientrare da sola a Nizza. Tempo dopo lo raggiunse di nuovo, questa volta a Rieti, dove passò settimane felici, tra i soldati, a fianco del Generale, contribuendo alla confezione delle camice rosse.
Anita tornò a Nizza costretta dal Generale, benché avesse prenotato un posto in carrozza per Roma. Era ammalata. Garibaldi le scrisse una lettera molto ferma imponendole di curarsi, preoccupato per la sua salute e per il bimbo che porta in grembo. Di quei giorni è la sola missiva che porta una firma autografa come consorte del Generale, “Annita Garibaldi”. Nessuno ha pensato di ricordarla col vero nome, Ana Maria de Jesus Ribeiro, sul suo monumento.
A fine giugno del 1849 arrivò a Roma per supportare l’assedio della città, combattendo a Villa Spada e prodigandosi con i soldati e con i feriti. Celebre il grido di Garibaldi che la vede arrivare: “Ecco la mia Anita, abbiamo un soldato in più“. Abitarono in Via delle Carrozze 59, dal 26 giugno al 2 luglio. E quando si prospettò la necessità della ritirata, Anita rifiutò di tornare a casa e preferì seguirlo, per non trovarsi separata da lui nel caso fosse costretto all’esilio. Reiterò questo rifiuto a Cetona, poi a San Marino quando la sua salute era diventata assai precaria.
La fuga verso Venezia si concluse tragicamente nella palude di Ravenna, il 4 agosto 1849. Hanno vissuto assieme per dieci anni.
Sepolta nel cimitero delle Mandriole, Anita vi rimase fino al 1859, quando Garibaldi, accompagnato da Menotti, Teresita e da alcuni amici, andò a prelevare i suoi resti mortali perché fossero trasportati a Nizza.
Vi riposò fino al 1932, quando rientra in quella Roma che la vide per l’ultima volta sposa e soldato di Garibaldi e ora l’accoglie tra i martiri della Repubblica Romana.
Tratto da:
Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile, vol. 1, Iacobelli, 2011