L’ingresso del punto di vista femminile nello sport ha portato a un felice rinnovamento nel linguaggio
L’articolo è tratto dal sito della giornalista Manuela Mimosa Ravasio
Uno dei miei sogni da adulta è quello di realizzare un sito di sport per donne. Nonostante l’abbia proposto a “gente-che-ci-capisce” la cosa non è mai andata in porto. Poche le donne che praticano sport, che lo tifano, che lo leggono… dicono. Io invece ho sempre pensato che l’ingresso del punto di vista femminile nello sport abbia portato a un felice rinnovamento nel linguaggio (che ce n’è un gran bisogno) e nel modo di raccontare lo sport tutto. Basta pensare al lavoro di Emanuela Audisio o a Simona Ercolani, la giornalista che ha ideato Sfide. Ecco cosa sono capaci di fare le donne quando raccontano lo sport. Lo tolgono dal tifo da stadio, dagli ammiccamenti maschilisti, dalle battute da spogliatoio, e gli restituiscono la sua dimensione epica e sociale, la sua memoria collettiva. Uno sport dove vincere è solo una parte della battaglia, poi ci sono le storie, le fatiche, gli uomini e le donne. Che ci sia bisogno di recuperare questa dimensione è ormai chiaro a tutti e la tristezza del caso Tavecchio non è che l’ultima conferma.
Qualche settimana fa, un’amica mi segnalò l’apertura di un nuovo blog Un altro genere di sport che si propone di stigmatizzare il modo in cui i media raccontano le donne che fanno sport. Che poi è lo stesso modo in cui le raccontano quando fanno politica, le dirigenti d’azienda o le banchiere. Lo stesso. Svilendo il proprio ruolo professionale e riportandole laddove possono essere catalogate come carne da sottoporre a giudizio estetico. Il problema è che lo sport lo fanno, e quindi lo raccontano, i maschi. Quindi, la prima cosa da fare, sarebbe cominciare a far praticare sport, possibilmente di gruppo, alle nostre figlie invece destinate ai soliti corsi di danza. A una delle ultime riunioni di classe ho sentito persino la maestra di psicomotricità asserire che i maschi sono naturalmente portati per i giochi con la palla. Quando le ho chiesto se intendeva dire che c’era una sorta di innatismo nel talento sportivo, lei mi ha riposto che si doveva informare, ma pensava di sì. E i genitori altri parevano tutti d’accordo. Quindi, quando ci lamentiamo di come sono raccontate le donne dello sport cominciamo da qui. Cominciamo a praticarlo. E a tifarlo.
Mesi fa, quando stavo facendo la ricerca per il sito #sportxsignorine che non ci sarà mai, mi sono imbattuta in alcuni articoli del Guardian e del New York Times che rilevavano semplicemente una cosa: ci sono troppe donne che tifano e assistono al baseball o agli altri eventi sportivi per continuare a usare lo stesso linguaggio. Le donne stanno anche diventando le principali acquirenti di abbagliamento sportivo e forse è il caso di smetterla di trattarle come minus habentes (giusto per non usare la parola che ha usato il solito imbarazzante Tavecchio). Insomma, se non ve ne foste accorti, come dice Debbie Jevans, CEO di England Rugby 2015, la Coppa del Mondo di Rugby, ci sono sempre più atlete ad alti livelli, più giornaliste, allenatrici e amministratrici di società (e mi chiedo se Barbara Berlusconi non abbia davvero ragione quando dice che vuol cambiare la dirigenza del Milan, magari allontanando quel Galliani che, guarda caso, sostiene l’impresentabile Tavecchio). Certo, finché campionesse come Sara Errani e Roberta Vinci, due atlete che hanno riportato il tennis italiano, in silenzio, lontano da qualsiasi celebrazione della televisione pubblica, a livelli internazionali, vengono intervistate a Che tempo che fa da Fabio Fazio non in quanto campionesse, ma come due fanciulle che vincono Wimbledon e fanno il Career Grand Slam quasi per caso, tra le solite battute a doppio senso sul grunting e innocenti ed esclamazioni allibite del tipo: “maddai… facevi tutto insieme basket calcio e tennis!!” “maddai, hai fatto la Bollettieri che è una scuola dura (povera piccola!, ndr)”, e concludendo con domande tecnico sportive sul perché litigano e come dormono, beh… qualche problemino di riconoscimento del valore sportivo delle imprese femminili ce lo possiamo avere. Soprattutto poi se il tutto si è fatto seguendo la traccia del libro di un uomo, André Agassi, lui sì, campione vero.
E mi spiace anche per l’intervista di Federico Buffa, giornalista certo lontano da certi biechi linguaggi, a Sara Errani, certo migliore, ma che stava stretta dentro un format che si chiama I Signori del Tennis e che quindi, non prevede, per nascita e destino, un posto ad hoc per le signore… Perché appunto, un posto per lo sport femminile, nonostante le vittorie, nonostante le affermazioni, non è previsto. E questo, a mio parere, fa più dei commenti sui completini o sulle fasce muscolari. Non è insomma quello che si dice che fa danno, ma il peggio è quello che si cela, che non si dice per volontà o calcolata ignoranza. Semplicemente allora, dovremo, come tifose o appassionate, cominciare in massa a raccontarlo lo sport, in un altro modo, il nostro (magari giornaliste come Manuela Audisio, Lia Capizzi, Ilaria D’Amico, Chiara Gambuzza, Barbara Grassi potrebbero unirsi al coro…). Fino a far diventare questo racconto non un semplice chiacchiericcio, ma una voce che sovrasta il mainstream. Che alla fine, a ben vedere, sono dieci giorni che non parla altro che di banane e quindi, mi pare evidente, non gode di buona salute.