Dopo ventisei anni ha lasciato la Rai per dedicarsi a quelli che chiama cattivissimi. Da volontaria. Anche se a lei questa parola non piace.
da tipitosti.it
Nata nel ’56 a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) Francesca De Carolis ha deciso di raccontare la sua storia. Dice: “Ventisei anni in Rai, dopo aver vinto uno dei primi concorsi banditi dalla tv pubblica con la Federazione nazionale della Stampa. Ritengo di essere stata fortunata. So bene che i concorsi si possono vincere, ma si possono anche non vincere e per poco. E poi anche perché i concorsi in Rai non sono stati più fatti. Per me è stata una bella occasione. Ventisei anni, difficili da riassumere. La prima destinazione, anni ’80, è stata la sede regionale siciliana, Palermo, poi presto il TG1, a Roma, redazione cronaca. Mi occupavo soprattutto di “bianca” fra i notiziari e gli approfondimenti degli Speciali e l’allora per me “storico” settimanale “TV7”.
Dopo qualche anno sono passata all’organizzazione del giornale, come coordinatore delle edizioni. Una sorta di salto di campo, che, comunque, mi è piaciuto molto fare. Capisci la logica del sistema informazione e impari a comprenderne anche i lati oscuri. Ma quando ti trovi a mandare in onda un tg che proprio non condividi, che fai? Un conduttore magari noto può dimettersi, fa anche bella figura e aspetta il prossimo giro. Un coordinatore se ne va. E così sei anni fa lascio il tg per la radio. Radio uno e ricomincio daccapo. Nel marzo dello scorso anno sono andata via in modo definitivo. E non penso di essere stata così eroica. Ho approfittato di un incentivo che l’azienda ha offerto. Certo, per me era un po’ presto e qualcuno mi ha preso anche un po’ per matta. Altri mi hanno chiesto quale altro posto ci fosse ad attendermi”.
Ma?
Ci sono dei momenti, nella vita, in cui bisogna anche fare i conti con il proprio carattere. La mia incapacità di navigare in un posto, piuttosto cambiato rispetto al momento in cui ho iniziato, dove sprechi un sacco di energie più per dimostrare quello che sai fare che per lavorare sul serio, ha inciso molto. Soprattutto se sei fuori da ogni logica di gruppo o di partito. Ma a parte la mia trascurabile vicenda, sono convinta che molto più in generale questo sia uno dei problemi più gravi della Rai, azienda in cui ci sono degli eccellenti colleghi, ma dove la struttura e le scelte di fondo rispondono a logiche tutt’altro che giornalistiche. Insomma, ho pensato che non volevo sopravvivere, trascinandomi nel lamento e fra lamenti, fino a uscirne magari pensionata, ma professionalmente vecchia e triste.
Ti è costato un pò?
Sì, 24 ore di panico. Lo stesso panico di quando decisi lasciare la cronaca, non fare più servizi e occuparmi dell’organizzazione del giornale. Ma il giorno dopo è iniziata un’altra vita. Con quelli che mi piace chiamare cattivissimi. Mi erano sembrate interessanti le voci, raccolte tempo prima, per una delle trasmissioni che in radio ho seguito.
Quali?
Le voci degli ostativi, persone condannate per reati legati ad associazioni di stampo mafioso ed altro. E’ nata subito una fitta corrispondenza con Nadia Bizzotto, responsabile del servizio carcere per la comunità Papa Giovanni XXIII, con Carmelo Musumeci, ergastolano. Sono loro che mi chiedono di scrivere un libro con le voci dei morti viventi, testimonianze raccolte tramite lettere, e nasce “Urla a bassa voce, dal buio del 41 bis e fine pena mai”. Un libro che devo anche all’attenzione di Marcello Baraghini, per me da sempre mitico fondatore di Stampa Alternativa. Finito il libro, ho capito che tutto da lì sarebbe ricominciato, perché quando conosci i nomi e i cognomi, le storie, non puoi dimenticare. Ecco io ho deciso cosa fare: scrivere, portare fuori identità cancellate. Raccontare le loro storie.
La prima volta com’è stata?
Ho messo per la prima volta piede in un carcere, a Padova, per alcuni incontri organizzati dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Pensavo che sarebbe stato semplice, e, invece no. E non parlo dei cancelli che ti si chiudono alle spalle, dei corridoi dove incroci gli occhi di chi ti guarda dietro i cancelli che chiudono i diversi reparti, delle porte di ferro che si serrano una dietro l’altra.
Cosa è stato difficile?
Uno degli appuntamenti era riservato alle persone in alta sicurezza. In genere cercano di non far incrociare i condannati in regime di massima sicurezza con i condannati comuni. Be, li ho ancora tutti davanti agli occhi. Una quarantina di persone, da anni in carcere, ma soprattutto molti con la prospettiva di non uscirne mai. Ho avuto alcuni permessi per entrare in carcere come giornalista e per un progetto individuale. Lo scorso autunno e poi per tutto l’inverno, quasi ogni quindici giorni, sono andata a Spoleto, per incontrare Mario Trudu, autore di un’autobiografia, che è stata pubblicata ora da Stradebianche di Stampa Alternativa.
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