L’ultimo libro di Cristina Obber, ”L’altra parte di me” narra la storia di due adolescenti che crescono, amano e si scontrano con una realtà precostituita che dovanno infrangere, per essere se stesse.
Da molti anni Cristina Obber scrive sulle pagine di dol’s, anche e non solo. Oltre ad essere una giornalista è una scrittrice ed ha prodotto molti libri che spaziano dai primi baci ”d’antan” , alla ragazze siriane, alla violenza sulle donne. Sempre attenta e partecipe della vita sociale più intima che non riguarda solo il mondo delle donne, è capace di entrare a parlare in un carcere con i ragazzi che hanno usato violenza ad una donna, ma anche di guardarsi intorno e con animo obiettivo rappresentare e riflettere sul mondo circostante.
Ed ecco il suo ultimo libro ”L’altra parte di me” che ha scritto in gran segreto. Ed ora in libreria ed in formato e-book.
Avrei dovuto intervistarla, ma mi limiterò a riportare quello che lei stessa scrive a proposito del suo libro perchè credo di non poterlo raccontare in un modo migliore del suo, riportanto gli stessi fremiti ed emozioni che la sua penna sa descrivere.
Le sentinelle in piedi nelle piazze, le dichiarazioni omofobe di esponenti politici a cui i media danno ampio spazio senza approfondire, perché ciò che conta è guadagnare click e ascolti; l’omofobia tra i banchi di scuola, la tragedia dei suicidi di adolescenti che non riescono ad intravedere uno spazio per sé.
Un paese che arranca e che come in ogni momento di crisi rischia di involvere violentemente. In questo contesto mi è parso necessario raccontare una storia d’amore con un lieto fine, con un orizzonte luminoso che si allarga anche agli affetti più cari, infondendoci la forza per affrontare con fiducia la vita. Senza nascondere le difficoltà, i muri di paure e stereotipi da abbattere, ma raccontando che si abbattono, che la felicità è possibile. Che possiamo scegliere tra la conoscenza e il buio, sempre e a qualsiasi età.
!n questi due anni sono stata in molte scuole italiane per parlare di violenza sessuale e femminicidio (con il libro e progetto “Non lo faccio più”). Le ragazzine, soprattutto in provincia, non hanno modelli di riferimento che escano dal recinto di madre e sposa paziente. I maschi sono intrappolati in un modello di virilità nel quale non si riconoscono. E anche coloro che sembrano più consapevoli di sé e più emancipati, di fronte all’omosessualità fanno un passo indietro alternando manifestazioni di timore, sospetto o quanto meno una passiva tolleranza. Raramente serenità.
Anche nel mondo adulto si associa molto di più l’omosessualità ad una sfera sessuale anziché sentimentale. Ecco che nella storia d’amore tra le protagoniste del libro l’esperienza sessuale arriva dopo, dopo che il cuore e la testa e l’anima sono coinvolte in un sentimento che appassiona chi legge come in una qualsiasi storia d’amore etero. Perché il nodo della questione è qui.
Oltre a un interesse mediatico rivolto soltanto ad omosessuali eccentrici e caricaturali dalla sessualità esibita, spesso nei libri come nei film le storie di amori omosessuali sono avvolte in atmosfere cupe, richiamano sofferenze, abusi subiti nell’infanzia o malattie o morte. Ci tenevo a raccontare un lieto fine perché le tante storie splendide di lesbiche o gay che realizzano i propri sogni non arrivano, non si vedono, e ciò che non si vede non esiste.
Nel processo di rafforzamento della propria identità dunque la mancanza di modelli positivi di realizzazione, di modelli di coppie che vivono la quotidianità come tutti, fa sì che gli adolescenti e le adolescenti si auto censurino nel timore della disapprovazione sociale che parte dagli affetti più cari, famiglia e compagni di scuola. Lo stesso vale per gli adulti. Se il “mondo etero” e il “mondo omosessuale” viaggiano su binari paralleli e si incontrano soltanto per richiedere ed accordare diritti senza fare esperienza di relazione, la percezione che si tratti di mondi diversi non potrà scemare e anzi la differenziazione in categorie sarà sempre più marcata.
Tollerare non è rispettare, le parole vanno maneggiate con cura. Nel libro non ho diviso il mondo nemmeno tra adolescenti e adulti, dando spazio a figure più o meno positive da entrambe le parti. E laddove gli adulti hanno faticato maggiormente ad accettare la scelta delle protagoniste, non ho giudicato ma accompagnato. Accompagnare significa comprendere le difficoltà che la cultura ci ha imposto, con cui ci ha forgiato, e avvicinare.
Perché solo avvicinandoci ad un mondo che ci pare lontano e diverso da noi, conoscendolo, possiamo fare esperienza di ugualità anziché di diversità, e smettere di avere paura. Omofobia significa paura, ma se i sentimenti hanno la meglio sui condizionamenti, tutti possiamo ritrovarci migliori non solo nel nostro ruolo di adulti educatori, ma anche intimamente, in quanto esseri umani in relazione con altri essere umani.
Alla fine del libro definisco “la fatica inutile” tutte le difficoltà che sia le protagoniste che le atre figure vivono durante i quattro anni in cui si dipana la storia; una fatica che logora vite che avrebbero potuto essere serene e non lo sono state, per tutti. In fondo questo vorrei lasciasse il libro, una sensazione di sollievo, un desiderio di ridare respiro alla semplicità, perché la vita sarebbe semplice, se la lasciassimo fare. Le due ragazze hanno 15 e 16 anni quando si innamorano, si scontrano con questa fatica, ma sono loro quelle che aiutano gli altri a crescere, sono loro quelle che non mollano, e con la vita che pulsa, restano insieme. Perché sono le più forti.
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