Ha impiegato anni per ricostruirsi. E ad aiutarla è stata solo la sua unica passione: l’arte.
da tipitosti.it
Le associazioni che avrebbero dovuto sostenerla sono sempre state assenti. Anzi, in alcuni casi hanno solo sfruttato il suo caso. E come alcune associazioni, alcune istituzioni e alcuni media. “Ho dovuto fare tutto da sola – dice – da sola ho cercato un aiuto medico, da sola un avvocato. Ho speso parecchi soldi e sono ancora in attesa della giustizia. Chi mi ha arrecato dolore è libero, più libero di me. Ma sento di avercela fatta e di aver trovato la giusta serenità per andare avanti e contribuire attraverso l’arte a dare voce ad altre donne”.
A pochi giorni dall’ok del Consiglio dei Ministri al testo sulla depenalizzazione di reati di lieve entità, parla Marzia Schenetti, nata nel ’65, sulle colline reggiane, cantante lirica e imprenditrice che, sei anni fa, ha conosciuto uno stalker e che con tanta fatica è riuscita a sopravvivere alle sue violenze. Merito, come spesso dice, del canto e della musica, che ha cominciato a coltivare da bambina – ma anche della scrittura. Marzia, ha, infatti scritto cinque libri e a febbraio ne pubblicherà un altro, dal titolo: le Gentildonne. https://www.youtube.com/watch?v=LogYSanFiBw&list=UUJ9IbDLbjvaYKTcm5Z34yQA
Marzia, ci racconti cosa ti è successo?
La mia vita comincia a cambiare nel 2008. Un individuo entra nella mia vita, uno stalker e truffatore seriale. Lo conosco un paio di anni prima su una chat, ma dopo uno scambio di mail e, soprattutto, dopo una cena – che mi fa scattare non pochi dubbi – decido di interrompere quella relazione. Da seriale ha e aveva tutti gli strumenti per tessere la sua ragnatela. Mentre io conducevo normalmente la mia vita, lui mi studiava molto bene. Dopo due anni riprende a scrivermi all’improvviso. Sapeva tutto di me. Spacciandosi per grande avvocato, consulente europeo, commercialista e imprenditore, riuscì in pochissimo tempo e nel modo più subdolo, ad appropriarsi della mia azienda e della mia vita. Per mesi ha tentato di farmi a pezzi dal punto di vista psichico. Io mi sforzavo di resistergli. La violenza psicologica presto è diventata fisica. Ho rischiato di morire più di una volta.
Quando hai deciso di denunciarlo?
Ho avuto nella disgrazia, una grande fortuna. Ero diventata una valigetta, che lui si trascinava. Un giorno sono arrivate cinque volanti della polizia e lo hanno arrestato. E’ stato un giorno tragico, che ricordo ancora oggi con grande angoscia. Non fu arrestato per quello che faceva a me, ma per la violenza su un’altra donna. In quei venti giorni in cui rimase in carcere, cominciai a capire quanto subdola fosse diventata la sua violenza. In quei giorni chiesi aiuto al servizio sanitario mentale, appoggiandomi ad uno psichiatra e ad un legale per avere alcune indicazioni di base.
A quel punto?
Lui uscì dopo una ventina di giorni. Si rifece vivo, ma a quel punto gli dissi che desideravo una vita normale e che avevo chiesto un aiuto medico. Successe il finimondo. Ma rimasi salda sulle mie posizioni anche se da quel momento iniziò lo stalking, che, ahimè, in forme diverse, dura da sei anni. In quei momenti è impossibile chiedere aiuto ai parenti o agli amici stretti. Ci si sente terribilmente soli, perché chi è manipolato, decide di tagliare ogni tipo di relazione con il proprio mondo. Famiglia, amici, collaboratori. Ti senti in colpa, provi vergogna. Tutto ti paralizza. Una volta che prendi coscienza, non ti viene facile denunciare. E a volte, andrebbe detto, non è la strada migliore. Certo, io ho impiegato tempo tra psichiatra e questura per tirare fuori tutto il dolore. Mesi per riuscire a parlare di tutto. La forza per uscirne ti viene dalla consapevolezza. Guardare in faccia la tua vita distrutta, la tua storia di persona, di donna, e sentire che non c’è’ ritorno, è sconvolgente. E le cose non vanno meglio quando denunci.
Perché dici questo?
Quando denunci, pensi che ci sia un mondo disposto a prendersi cura di te, delle tue disgrazie, a salvarti. Uscire dalla violenza non è un viaggio di un giorno, di qualche mese, di un anno. Non è risolvibile con un consulto o una brochure. E’ un percorso di lunghissimi e interminabili anni in piena solitudine. Si sbatte contro la malagiustizia, l’assenza delle istituzioni, s’inciampa nei salotti dei media come pulcini stropicciati e insanguinati, si è discriminati e mortificati proprio in quei luoghi dove ci si aspetta di trovare amore e compensione. In media si va dai cinque ai dieci anni per le vicende processuali. Comincia un altro tipo di violenza. Noi vittime non abbiamo la scorta, non abbiamo un lavoro, nessuno ci ascolta, nessuno pensa a reinserirci nella società. La nostra voce va bene se facciamo numero con una denuncia, ma non è ben vista se reclama i nostri diritti. Per questo molte donne fanno un passo indietro, preferendo l’inferno alla solitudine sociale. Ma spesso si arriva alla morte.
A te come è andata?
Beh, sono molto delusa. E’ un’ulteriore violenza quella che si subisce. All’inizio pensavo di poter contare non solo sulla solidarietà femminile, ma soprattutto sulle associazioni. Poi mi sono ricreduta. E ho cominciato a pensare che noi vittime siamo solo utili a certe associazioni. Nel 2011 ho creato una cordata tra vittime. Ho chiesto per due anni di costituire tavoli di lavoro e dibattito tra vittime e associazioni. Questi incontri sono stati sempre negati. Ritengo sia una grave mancanza e un clamoroso autogol, una forma di discriminazione. Insomma, chi subisce violenza serve in molti casi a riempire eventi e manuali.
E tu come riesci a sopravvivere?
In questi anni, contando sul tetto della mia mamma, perché devo ricordare che nella mia vicenda ho perso la mia azienda, la casa e il lavoro, ho fatto di tutto. Per sopravvivere ho fatto l’imbianchino, il muratore, la pavimentatrice e per gli ultimi tre anni – rompendomi la schiena a febbraio scorso – il facchino edile per 400 euro al mese. Nonostante questo, le vicende processuali sono ancora in corso, ho dedicato ogni mia energia possibile alla cordata delle vittime, ho cercato di trasformare i miei dolori in qualcosa di positivo attraverso l’arte.
Come?
Ho avuto la fortuna di poter ripescare nella mia storia i miei tesori, i miei sogni, la parte più intima di me, la creatività. Ho scritto cinque libri. Pero’, in nessuna occasione ho avuto un aiuto nella pubblicazione e promozione da parte di quel mondo associativo, di cui parlavo. I colossi associativi si dilettano a scrivere, pubblicare e promuovere libri scritti dalle loro stesse collaboratrici, ma non danno di certo questo spazio artistico e culturale alle vittime, che sarebbe, invece, un elemento fondamentale per ricominciare a vivere. Ho aiutato altre donne a pubblicare le loro opere, ma questo ruolo non spettava e non spetta a me. Ho poi organizzato incontri, dibattiti e messo in scena due opere teatrali. E’ stata un’operazione amara.
Veniamo al libro che uscirà a febbraio. Le Gentildonne.
In questo libro racconto il mio viaggio dal momento della denuncia ad oggi. Ne ho viste tante. E ho preso schiaffi che pesano come macigni dalle istituzioni, da alcune associazioni e dai media. In Gentildonne descrivo le storie delle donne che si aspettano gesti concreti, aiuti veri e si trovano a lottare per anni da sole, mentre la grande macchina mediatica macina parole di solidarietà e buonismo. Chiudo il libro parlando di amore, quello vero, che esiste e compie miracoli. Ti trasforma.
Ti senti tosta?
Nonostante ancora oggi ci siano giorni in cui vorrei spegnere tutto, mi ritengo molto tosta. Sono riuscita a venirne fuori da sola e ancora oggi affronto la verità, mettendomi allo sbaraglio come un cerchio da tiro a segno.
Che fine ha fatto il tuo ex?
Lui è libero. Affidato ai servizi sociali, ma libero. Io non mi sento libera, invece. Allo stato attuale, anche se sopravvivi al tuo carnefice, butti via un’esistenza, aspettando una giustizia che non sarà mai vera o diritti che sono solo illusioni.
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Cinzia Ficco