E’ solo perché guardiamo la sordità a partire dal nostro punto di vista di udenti-parlanti maggioritari e dominanti che quest’ultima risulta essere solo una disfunzione. Ne parla Filomena Tucci con Donata Chiricò per Donne Digitali
Ci parli del tuo libro “Diamo un segno. Per una storia della sordità”, che parla di parola, segni e sordità, difficoltà e pregiudizi antichi e pensiero moderno su handicap: per quale ragione ha deciso di scrivere un libro sul tema?
Da alcuni anni studio e insegno le disfunzioni del linguaggio. Le insegno come può e deve farlo chi, come me, ha una formazione filosofica. Questo vuol dire che affronto tali temi sempre a partire dalla loro origine intellettuale e tenendo conto delle implicazioni epistemologiche e delle domande etico-politiche che generano. La sordità ne genera diversissime. Genera quelle tipiche delle disabilità fisiche, ma soprattutto ne genera di specifiche. La sordità, infatti, non è una disabilità come le altre. Anzi, in un certo senso non è una disabilità. Potremmo dire, al contrario, che rappresenta “testimonianza” in senso proprio, vale a dire la condizione che annuncia e rende possibile l’emergere di lingue visivo-gestuali: le lingue dei segni.
Questo vuol dire che è solo perché guardiamo la sordità a partire dal nostro punto di vista di udenti-parlanti maggioritari e dominanti che quest’ultima risulta essere solo una disfunzione. In realtà, essa è anche e soprattutto una condizione che genera una lingua “straniera” rispetto ad una qualunque delle lingue verbali che sono parlate sul pianeta. Insomma, un sordo non è un “malato” più di quanto un parlante italiano nativo non lo sia rispetto agli innumerevoli parlanti cinesi che vivono sulla terra. Altrimenti detto, se a causa di una mutazione genetica nascessero solo bambini sordi, presto essi sarebbero la maggioranza, svilupperebbero naturalmente lingue segnate e nessuno penserebbe che si tratti di una patologia che deve essere “guarita”. Eppure, quando nasce un bambino sordo, questi diventa prima di tutto un paziente. Egli viene protesizzato, sottoposto ad anni di esercizi logopedici e, in taluni casi, destinato all’impianto cocleare.
Non si tratta qui di negare il fondamentale contributo che viene dalla medicina quando si tratta di azioni finalizzate a far fruttare al massimo residui uditivi, laddove ci siano e, quindi, attivare la fonazione che ne può conseguire e che, come è noto, dipende da quanti e quali suoni effettivamente il sordo riesce a percepire e riconoscere. Si tratta, invece, di mettere in evidenza che non possiamo rimandare oltre la nascita di una convergenza di azioni tra studiosi del linguaggio e della sordità e medicina. Fino ad oggi, a parte casi isolati, la soluzione medica al problema della sordità viene praticata a prescindere dalle conoscenze che su questo tema hanno prodotto le scienze del linguaggio e – dato ancora più grave – come inconciliabile con l’acquisizione della lingua dei segni e la valorizzazione di una conoscenza del mondo strutturabile anche a partire dal canale visivo-gestuale. Eppure, è importante sapere che laddove nella storia si è espressa una reale emancipazione dei sordi, questo è successo grazie al fatto che essi sono stati messi nelle condizioni di poter studiare e utilizzare la loro lingua. La prima volta questo è accaduto a Parigi, a metà del Settecento, grazie all’opera illuminata di un prete inviso alle gerarchie ecclesiastiche ma dotato di una grande sensibilità filosofico-linguistica. Si chiamava Charles-Michel L’Épée (1712-1789) e fu grazie a lui che la questione sordità fu finalmente affrontata dal punto di vista dei sordi. Fu così che egli si rese conto che essi possedevano un modo tutto loro di comunicare: i gesti. Li imparò, gli organizzò grammaticalmente, contribuì a farne nascere di nuovi e, di fatto, tenne a battesimo la prima lingua dei segni della storia. Fu in questo modo che la sordità smise di essere un “difetto” e si trasformò in una risorsa. Si tratta di un momento straordinario per la storia di ogni pedagogia che non voglia essere normalizzazione, un momento luminoso a cui purtroppo sono seguiti tantissimi momenti oscuri che determinano anche il nostro presente. In un momento in cui l’Italia attende che il Parlamento approvi una legge sul riconoscimento della lingua dei segni, mi sembrava importante dare visibilità e consistenza teorica ad un impresa tanto straordinaria e almeno tentare di contribuire a indebolire il radicatissimo pregiudizio che ancora pesa sulla sordità e sui sordi. Questa la ragione che mi ha spinto a scrivere Diamo un segno.
Come si sta cercando di curare la sordità e suoi effetti?
Il più grande disagio legato alla sordità non consiste nella difficoltà di parlare. Questo è un modo di vedere la sordità dal punto di vista degli udenti. Il vero problema della sordità è che i bambini che nascono sordi ovviamente lo fanno in un mondo di udenti e non hanno alcun accesso alla loro lingua naturale: la lingua dei segni. Questo fa sì che la maggior parte di loro accumuli ritardi cognitivi e, quindi, educativi e comportamentali. Bisogna chiarire che non si tratta di effetti diretti della sordità, ma di conseguenze indotte dal fatto che continuiamo ad affrontare il problema della sordità come se fosse un mero difetto biologico e che come tale sia un problema che riguarda esclusivamente la medicina. In realtà, la questione va affrontata dal punto di vista culturale e educativo.
Premesso ciò, almeno dal XVII secolo in poi, molti hanno ritenuto che indurre nei sordi la produzione di suoni fosse il sistema migliore per permettere loro di integrarsi. Ora, che questa fosse la risposta data alla sordità nel 1600 è comprensibile e spiegabile dallo stato delle conoscenze dell’epoca. Non solo fino a quel momento i sordi vivevano al di sotto della soglia minima di accesso all’esercizio della propria libertà personale, ma non era attestata alcun pratica di “riabilitazione” di questa condizione. Quello che è meno comprensibile è che questa sia la risposta prospettata come unica e fondamentale ancora oggi, ovvero quasi tre secoli dopo l’opera educativa portata avanti da Charles-Michel L’Épée e la nascita della prima lingua dei segni.
Tuttavia le cose stanno così. Malgrado il fatto che la storia della sordità abbia dimostrato che se si vuole lavorare per una reale integrazione dei sordi bisogna fare in modo che essi accedano alla loro lingua naturale nei tempi e nei modi in cui un bambino udente accede alla lingua parlata, quello che si continua a prospettare ai sordi è un insieme di azioni mediche che dovrebbero permettere loro di parlare: Rarissimamente si tiene conto che contestualmente andrebbe promosso e sostenuto l’incontro con la lingua dei segni. Senza nulla togliere alla giusta ambizione di “far parlare” i sordi come fossero udenti, va detto chiaramente che, appunto, i sordi non sono udenti e non parleranno mai “come se fossero udenti”. Specificamente, è importante avere consapevolezza di alcuni dati obiettivi. Il primo di tutti consiste nel fatto che per un sordo parlare è l’attività più innaturale che ci sia. E questo non in termini metaforici, ma in termini propriamente biologici. Nessuno, cioè, sa meglio di loro che la parola non è una funzione a sé, una qualità che abbiamo a prescindere dalle condizioni del nostro udito. Essa deve la sua forza, la sua bellezza, il suo potere, al fatto che è totalmente dipendente dall’orecchio in quanto fonte unica e specifica dei suoni linguistici. Questo vuol dire che è profondamente inappropriato usare il termine parlare nel caso dei sordi se per parlare intendiamo quell’atto naturale e spontaneo che è talmente libero e liberante da non dover essere appreso. Nel caso dei sordi solo medicalizzati ci troviamo, al contrario, dinnanzi al risultato di un “compito” imposto dall’esterno. Si tratta di un mero esercizio logopedico, della pronuncia di parole più o meno intelligibili dall’uditorio. Questo vuol dire che fino a quando si continuerà a pensare che la sordità vada solo “curata”, sarà molto improbabile che i sordi diventino soggetti a pieno diritto. Ripetere suoni, parole, frasi, anche se correttamente, è qualcosa di ben diverso dal partecipare liberamente e fin dalla nascita al naturale gioco linguistico che si svolge fra umani.
Ci sono difficoltà diverse nel quotidiano dell’uomo sordo rispetto alla donna sorda?
La sordità ha inevitabili e diversificati effetti sulla dimensione dell’esistenza che rappresenta il nostro specifico modo di stare al mondo: il linguaggio. Padroneggiare una lingua è la condizione necessaria per l’accesso al sapere e, conseguentemente, all’esercizio della propria libertà e dei propri diritti. Si tratta di dimensioni che rappresentano terreni di battaglia molto ben noti alle donne in quanto uno tra i soggetti storicamente marginalizzati. Non c’è dubbio, quindi, che le donne sorde sommano agli ostacoli di cui è caratterizzata la storia del genere femminile quelli derivanti dalla sordità e dalle prassi che la riguardano. Allo stesso tempo, è importante evidenziare, anche per le implicazioni filosofiche che ne derivano, che in quanto la sordità priva propriamente di parola tutte e tutti coloro che ne sono affetti, rimescola le carte della storia e mette gli uomini là dove le donne vivono e hanno vissuto per secoli: nel silenzio che non sceglie.
Potranno le nuove tecnologie ridurre i disagi di chi ha un handicap e riavvicinare a una condizione vivibile?
In particolare nel caso dei sordi, che hanno un’”intelligenza visiva”, le nuove tecnologie possono avere un ruolo importantissimo. Per quanto mi riguarda, ad esempio, è da molto tempo che sogno di potere mettere in piedi un progetto di ricerca e applicazione che, mettendo insieme il sapere che viene dalle scienze del linguaggio e quello che è prodotto all’interno delle nuove tecnologie, contribuisca alla promozione e alla diffusione della lingua dei segni. Ricordiamo, ad esempio, che si tratta di una lingua visivo-gestuale, ovvero tridimensionale, la quale, inoltre, non è ancora dotata di una forma di scrittura. Immaginate quale contributo potrebbe avere da questo punto di vista un’abile uso della tecnologia 3D.
Per chi non si sottopone a operazioni, non usa impianti cocleari quale futuro? Potrebbe il web ridurre il peso dell’handicap e ridurre le distanze?
Il futuro dei sordi, impiantati o meno che siano, sta nell’acquisizione precoce della lingua dei segni e in una scolarizzazione che ne tenga conto, ovvero che la usi e la promuova. Il web da solo non può fare nulla. In quanto luogo virtuale in cui è possibile accedere rapidamente a molteplici informazioni, il web diventa prezioso per chi sa specificamente usarle, ovvero per chi sa cosa sia un significato, un testo, e quale sia l’uso e l’abuso che di questi può essere fatto. Come del resto dimostra la “vita” che il popolo dei sordi effettivamente conduce grazie alla rete, quest’ultima diventa uno strumento straordinario di scambio di idee, una reale possibilità di socializzazione e crescita culturale, solo per quei sordi che hanno un livello di istruzione tale da permettere loro un accesso anche minimo a questo mezzo.
Sempre più spesso in convegni e seminari assistiamo al traduttore in real time con il linguaggio dei segni. Sarebbe auspicabile diffondere il linguaggio dei segni anche nelle attività didattiche?
Intanto è necessario ricordare che l’espressione corretta è “lingua dei segni” e non c’è dubbio che è fondamentale che essa venga utilizzata in contesti formativi. Si tratta di una lingua come tutte le altre e potrebbe proficuamente essere insegnata quale seconda lingua, come fosse l’inglese piuttosto che il francese. La presenza di un bambino sordo in una scuola, ad esempio, dovrebbe essere vissuta come una risorsa piuttosto che come una difficoltà ed un ostacolo. I suoi compagni potrebbero imparare la sua lingua e contribuire a dare vita così a quel “bilinguismo” in cui ogni bambino sordo dovrebbe poter vivere.
A questo proposito, bisogna chiarire che nel nostro paese è vigente una legge (517, 1977) che sancisce l’obbligo dell’inserimento dei bambini disabili – e, quindi, dei bambini sordi – nelle scuole comuni. Sarebbe tutto bellissimo se contestualmente qualcuno avesse provveduto anche a stabilire come questi bambini che non sentono e non parlano avrebbero potuto essere scolarizzati in una scuola costruita solo per udenti. Nessuno lo fece. Da allora nessuno lo ha mai veramente fatto. Ad oggi, unico riferimento legislativo a cui appellarsi è la legge 104 del 1992 la quale prevede (art. 13, comma 3) che gli Enti Locali debbano provvedere a fornire, a fianco dell’intervento della scuola, personale educativo con funzione di assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici e sensoriali. Viene così istituita ufficialmente la figura dell’”Assistente alla comunicazione” senza che peraltro facesse seguito una legislazione che chiarisse il ruolo e le competenze di questa figura e, in realtà, chi ne avesse diritto e quale ente dovesse provvedere al pagamento delle prestazioni. Se a questo poi aggiungiamo che la formazione degli insegnati di sostegno non prevede una settorializzazione di competenze e, quindi, nessun è formato per affrontare un sordo piuttosto che un cieco piuttosto che un autistico in una scuola che continua legittimamente ad inserire bambini con questi profili cognitivi e caratteristiche sensoriali, il quadro è assolutamente desolante. In questo vuoto legislativo spacciato per politica dell’integrazione i bambini sordi continuano a restare sotto scolarizzati o per nulla scolarizzati.
Dobbiamo altresì tenere conto che dal 2008 il Parlamento italiano ha in discussione una DdL sul “Riconoscimento della lingua dei segni” che già nel passaggio dal Senato alla Camera è stato significativamente svuotato di senso e non a caso rinominato. Il testo attualmente in discussione, Disposizioni per la promozione della piena partecipazione delle persone sorde alla vita collettiva e riconoscimento della lingua Italiana dei Segni, è arrivato alla camera nel 2011, è stato inondato di emendamenti ed è da allora in attesa di approvazione. Nell’ultimo anno numerose sono state le mobilitazioni finalizzate a chiedere che venga discusso e finalmente varato. La battaglia è assolutamente legittima, soprattutto se si tiene conto che il Parlamento Europeo si è già espresso in questa direzione attraverso ben due risoluzioni (GU CE C 187 del 18 luglio 1988; GU CE C 379 del 7 dicembre 1998) concernenti specificamente la difesa e la promozione della lingua a dei segni. Esiste altresì una Convenzione delle Nazioni unite relativa ai diritti delle persone disabili (2006), ratificata dall’Italia nel 2009 e entrata in vigore nell’Unione Europea il 22 gennaio 2001 nella quale sono contenute numerosi riferimenti relativi alla questione del riconoscimento della lingua dei segni (artt. 9, 21, 24, 30).
Tuttavia, il pericolo più grosso che si corre è che questa legge passi solo come omaggio al politicamente corretto e che, come è già accaduto per la riforma sull’integrazione scolastica, resti lettera morta. Perché questo non accada è fondamentale che si capisca che la lingua dei segni va insegnata e che questo compito deve essere messo nelle mani della scuola e dell’università pubblica. Specificamente, tocca quest’ultima formare gli assistenti alla comunicazione, gli educatori sordi e gli interpreti. A chiunque pensasse che in periodi di tagli, questo non è possibile, sia chiaro che cospicue somme vengono ogni anno spesi per i sordi. Si tratta di fondi destinati ad “assisterli”. Ma ora è arrivato il momento di usarli per dare loro una vera istruzione e renderli liberi. Un esempio per tutti: l’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordi (ENS), costituito nel 1932, riceve un contributo ordinario annuo a carico del bilancio dello Stato in qualità di associazione nazionale di promozione sociale (ex legge n. 438 del 1998). L’Italia non è più il paese che era prima della guerra e questi enti sono superati dai tempi e dalla reali esigenze dei soggetti che si prefiggono di “proteggere”. Al contrario, le somme che a loro sono destinate sarebbero molto ben spese se finanziassero scuole e formazione pubblica finalizzata alla diffusione e allo studio della lingua dei segni.
I nativi sordi sono il target più delicato e difficile potranno diventerei nativi digitali?
I sordi congeniti esposti dalla nascita alla loro lingua, non solo possono diventare nativi digitali, ma possono giocare addirittura un ruolo propulsivo e, quindi, rappresentare un valore aggiunto. Essi compensano con la vista il deficit uditivo e, quindi, hanno un accesso privilegiato a tutte le forme di comunicazione e informazione veicolate attraverso immagini o sistemi connessi.
Donata Chiricò
ANNO DI NASCITA: 1969 . Si definisce così: Insegna Etica della Comunicazione presso l’Università degli Studi della Calabria. E’ laureata in Filosofia, ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia del Linguaggio e si è specializzata in Francia (Paris VII-Denis Diderot) in Linguistica Teorica e Formale e in Lingua Francese. Si occupa di storia culturale della sordità e di questioni di psicolinguistica e biolinguistica con particolare interesse per lo studio dell’influenza dell’ontogenesi dell’udito sull’acquisizione del linguaggio. Recentemente ha cominciato a lavorare sul rapporto tra antropogenesi e evoluzione della voce. E’ socio fondatore del “Gruppo di Ricerche Terapie Musicali e Medicina Complementare” (RI.T.MI) il quale si occupa di formazione e ricerca sull’utilizzo del suono e della voce a fini non musicali. Collabora con riviste, è traduttrice di lingua francese, scrive racconti e poesie. E’ suo un testo dedicato all’esperienza manicomiale di Alda Merini dal titolo: Fermata non richiesta e dal quale è stato ricavato l’omonimo spettacolo a cura della compagnia Senza Fissa Dimora Teatro (Lecce).