Visitare Machu Picchu è come approdare in un’isola di pietra, dopo aver navigato per ore nel verde della giungla.
E’ in auge, da qualche tempo, un approccio conoscitivo innovativo che studia il rapporto fra le condizioni psico-fisiche degli individui e determinati luoghi della Terra, denominato geobiologia. I suoi ricercatori, spostandosi da una parte all’altra del pianeta, hanno rilevato come il campo magnetico e l’intensità vibrazionale di determinate località siano in grado di avere una potente capacità d’impatto sugli esseri umani. Grazie a tali ricerche si è potuto constatare che l’ubicazione di determinati agglomerati urbani, ovvero di specifici edifici sacri, non è mai arbitraria bensì dettata da profonde conoscenze geologiche note sin dai tempi dell’antichità, e che l’uomo di fatto funziona come una raffinata antenna cosmo-tellurica, in grado di captare e reagire alle innumerevoli forze ambientali con cui entra in contatto. Da ciò lo studio dei luoghi misteriosi e reconditi, da cui nasce il mito del Genius Loci, quella particolare forma energetica, spesso antropomorfa, che simboleggia le forze geo-fisiche presenti ed attive in un determinato ambiente.
Non so se qualche geobiologo si sia spinto sino a Machu Picchu, ma dovrebbe senz’altro farlo.
Visitare Machu Picchu è come approdare in un’isola di pietra, dopo aver navigato per ore nel verde della giungla.
La nebbia e le nubi l’avvolgono per la maggior parte dell’anno, conferendole un fascino quasi spettrale.
Il fatto che sia rimasta nascosta per centinaia d’anni agli occhi dei più e all’avidità dei conquistadores, ha permesso una sua naturale conservazione che l’ha preservata praticamente intatta, come se gli incas l’avessero appena abbandonata, per la gioia degli archeologi e dei turisti.
Le sue dimensioni ridotte lasciano perplessi diversi studiosi, facendo pensare più ad un luogo di culto o ad un osservatorio astronomico, piuttosto che ad un centro abitativo vero e proprio. Un’ipotesi vuole che fosse una sorta di fortezza destinata ad accogliere solamente l’alta nobiltà inca, e che i suoi ruderi non siano solo semplici alloggi bensì veri e propri templi.
Arrivammo in prossimità delle rovine che era quasi mezzodì. Una fitta pioggerella ci accolse, insistente e noiosa, e ci accompagnò per tutta la visita; faceva freddo e l’estate di Lima sembrava ora un ricordo lontano, una sbiadita cartolina di un paesaggio esotico. Avevamo già un’incontenibile nostalgia del sole.
La prima cosa che ci creò sconcerto fu l’innaturale ubicazione della cittadina.
Arroccata su di un’impervia montagna andina, a quasi 2500 metri sul livello del mare, Machu Picchu è un luogo difficilmente raggiungibile, tanto da far pensare che chi la costruì abbia avuto una motivazione tanto seria quanto recondita. La sua struttura architettonica è incredibilmente precisa e complessa, orientata in modo tale da ricevere direttamente i raggi solari dall’alba al tramonto in ogni giorno dell’anno. Le mura sono realizzate con enormi blocchi di pietra, incastrati con precisione l’uno sull’altro senza l’uso del cemento, fatte per superare i secoli e per raccontare storie alle generazioni future. Considerando che gli Incas non conoscevano la ruota e non avevano animali da soma, appare davvero incredibile come siano riusciti ad edificare una città tanto avanzata in una posizione scomoda, usando una tecnica di costruzione evoluta e raffinata.
L’ambiente è stato ampiamente rispettato, utilizzando lo spazio in funzione del massimo rendimento, e gli edifici sono stati edificati esclusivamente con materiali locali. Le opere idrauliche inoltre sono così accurate che le acque incanalate scorrono ancora oggi fra i ruderi della città, animandola, come se fosse ancora viva ed abitata.
Camminammo impacciati fra le rovine per ore, facendo attenzione a non cadere sugli scalini ripidi e le viuzze in pietra bagnate dalla pioggia.
Coi nostri impermeabili colorati, sembravamo tanti uccelli variopinti, in bilico su zampe fragili ed insicure. Era tutto un lavorio frenetico di macchine fotografiche e di rullini che si consumavano come il pane, aperti in tutta furia con le mani e coi denti, per non perdere nemmeno una parola delle colorate spiegazioni della guida.
Javier, così si chiamava il nostro cicerone, possedeva l’innata capacità di dipingere racconti con le parole, e ci portò indietro nel tempo, facendoci scivolare di secolo in secolo. Nel suo narrare, la Storia si confondeva col Mito e col Folclore, sconfinando spesso nel terreno impervio della Magia e della Religione. Noi lo ascoltavamo ammirati, perdendoci nei tratti cubisti del suo profilo irregolare, tipicamente andino: aveva l’attitudine del cantastorie.
Che gli Incas fossero abili astronomi risultò evidente quando ci trovammo al cospetto di due precise strutture architettoniche: il tempio del Sole e l’Intihuatana.
Nel primo caso si tratta di un edificio a pianta semi-circolare, che presenta due finestre orientate rispettivamente ad est ed a nord, e dalle quali si può determinare con assoluta precisione il solstizio d’estate e quello d’inverno, i due momenti dell’anno in cui il sole raggiunge rispettivamente la massima e la minima declinazione: i “Solis statio” rappresentano una sorta di fermata obbligatoria del calendario, e sono stati variamente celebrati nei secoli dalle culture di tutto il mondo.
L’Hintihuatana invece è un misterioso monolite che si trova in cima ad una scalinata, intagliata nella roccia. Esso è stato ricavato dalla lavorazione di un unico masso ed è orientato in direzione nord-est /sud-est, in modo da poter calcolare con assoluta precisione i movimenti degli astri lunare e solare. Il suo nome significa letteralmente “il luogo dove si lega il Sole” al solstizio d’inverno, e serve per propiziarne il ritorno nell’estate successiva.
A fronte di questa perizia astronomica, alcuni studiosi hanno voluto interpretare la pianta della città come una sorta di mappa celeste, una riproduzione in pietra della Via Lattea; ciò la avvicinerebbe idealmente alle culture mediterranee e medio – orientali.
Ma allora cosa è stata realmente Machu Picchu?
La verità, come sempre, resterà celata da un velo e nascosta ai più, galleggiando sospesa nel non-tempo del cielo andino.
Le antiche pietre parlano solo a chi “ha occhi per vedere e orecchie per sentire”. Per tutti gli altri sono solo delle mura, mute testimoni di un’antica sapienza che ha visto recitare i riti dedicati alla potenza fecondante del Sole e all’energia femminile della Luna, in una celebrazione infinita della fertilità.
Solo una categoria di uomini può cogliere altri segnali: sono gli individui più sensibili, coloro che sentono i rumori sordi e percepiscono le ombre fugaci che si aggirano fra le rovine.
… Si dice che di notte i fantasmi degli antichi Incas ritornano per celebrare i loro Misteri.