Il turpiloquio serve a coprire i vuoti del pensiero, la mancanza di idee, l’incapacità di argomentare.
Grazia Priulla è di Masserano (BI), dove i suoi erano sfollati. Divorziata, con una figlia grande, che purtroppo vive in un’altra città. E’ una sociologa della comunicazione e della cultura, docente ordinaria di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Catania. Svolge attività di formatrice sui temi della differenza di genere.
I suoi studi riguardano i mezzi di informazione, la sociologia dei consumi culturali, la comunicazione giornalistica sulla mafia, i linguaggi comunicativi della pubblicità e della politica, i modi di rappresentazione e costruzione della realtà attraverso il mezzo televisivo, i temi della comunicazione pubblica in Italia, il sessismo.
Ha scritto un libro molto interessante, ‘Parole Tossiche ‘nel quale si parla della tendenza sempre più frequente al turpiloquio.
Come sei arrivata al tuo libro Parole Tossiche?
Leggendo le cronache parlamentari, da un lato (il turpiloquio della classe dirigente) e d’altro lato ascoltando parlare le persone (il turpiloquio della gente comune). Le pareti dei bagni pubblici, o le cuccette dei camionisti, o le curve degli stadi sembrano troppo strette: la volgarità si espande a macchia d’olio nei mass media, nelle università, nella politica, nei salotti, in bocca ai personaggi pubblici come agli sconosciuti. Quelle che un tempo si chiamavano “brutte parole” sono diventate intercalari (la più pronunciata in Italia è cazzo). In Italia esiste, e negli ultimi decenni abbiamo permesso che diventasse forte, una cultura rozza, razzista, omofoba, sessista, che amplifica i borborigmi della pancia del Paese.
Perchè tossiche?
Come i cibi inquinati avvelenano i nostri stomaci,come l’aria inquinata avvelena i nostri polmoni, così la volgarità dei discorsi avvelena la nostra mente. Se fossi credente direi la nostra anima. Ci si avvelena un poco alla volta, senza accorgersene. E così tra un gestaccio e un rutto, un vaffa e una pernacchia ci siamo ridotti a chiamare schiettezza la trivialità esibita come marchio di fabbrica. Più il brutto diventa consueto meno sembra brutto: vale per i paesaggi e vale per i discorsi, scempio dopo scempio.
Perchè oggigiorno si turpiloquia tanto?
In tutte le culture e in tutti i tempi sono esistite parole “vietate”, tabù verbali. Infrangerli poteva essere un atto di ribellione, di trasgressione consapevole; oppure consentiva lo sfogo di sentimenti forti, ira, rabbia, odio … in ogni caso era un fatto eccezionale. Da antimodello scandaloso, da fuga trasgressiva verso una dimensione carnale e rovesciata del linguaggio, il parlar sboccato si è oggi invece trasformato in abitudine quotidiana e in canone ufficiale. Serve a coprire i vuoti del pensiero, la mancanza di idee, l’incapacità di argomentare: per questo – non per moralismo – ai miei occhi è lo specchio di una regressione culturale.
La parola è azione?
Le parole non sono strumenti neutri ma definiscono l’orizzonte in cui viviamo: noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare, per stimolare comportamenti civili o incivili: bisogna prestarvi attenzione, perché è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati. Una società in cui si possa insultare o denigrare un essere umano senza essere mal giudicati è a rischio di barbarie.
La nostra è una società violenta e le parole ne sono uno specchio?
Il nesso tra la vulnerabilità linguistica e quella fisica (“parole che feriscono”, “parole che colpiscono”, “assalto verbale”) la dice lunga sul senso forte da attribuire al linguaggio aggressivo, che è esso stesso violenza poiché infligge dolore.
Affermare che la violenza verbale è culturalmente legittimata non equivale a sostenere che la violenza rappresentata scateni tout court la violenza reale; significa suggerire che essa circola nelle rappresentazioni, si sedimenta negli schemi percettivi, tanto più pericolosi quanto meno visibili.
Fra la violenza verbale e il suo sviluppo in quella fisica dovrebbero stare il rigetto sociale, la riprovazione nei contatti quotidiani. Esiste invece una sottovalutazione diffusa dei passaggi che precedono l’approdo alla violenza: si tollerano forme di sessismo definite scherzo, si simpatizza con forme di disprezzo e di volgarità che costituiscono un terreno di coltura.
Protesi a offendere, zittire, ridicolizzare, far sentire inferiori, l’insulto violento, la volgarità sessista, l’oscenità in pubblico sono per molti un modo di relazionarsi con il prossimo e di vivere in seno alla propria comunità. È un modo perverso e degradante. Danneggia il rispetto, la stima, la fiducia; sporca e umilia i rapporti e i pensieri ma non è vissuto come problema dalla maggioranza dei cittadini.
Non si tratta solo di non picchiare e non stuprare. La cultura machista che alimenta e sostiene la violenza contro le donne è fatta anche di tutta una lunga serie di doppi sensi, scherzi, commenti pesanti, luoghi comuni pruriginosi che affollano le conversazioni.
E il sessismo delle parole?
Il mondo della sessualità, con la sua potenza gratificante, potrebbe essere una prateria sterminata per la creatività, ma spesso i suoi percorsi si limitano a pochi consunti sentieri, si chiudono in vecchie gabbie. Il turpiloquio che oggi è a disposizione pare fantasia ma è ridondanza: addomestica, normalizza, irreggimenta i corpi e le condotte. Anche quando finge di sfuggire alla monotonia dell’atto meccanico, di stimolare l’eccitazione, è confinato nel recinto degli stereotipi.
La tradizione linguistica che nomina con spregio la diversità ha riguardato soprattutto la sessualità: ne sono stati quindi vittime gli omosessuali e le donne, spesso collegate alla mercificazione del sesso, paradossalmente considerata un problema femminile. Denigrare, da secoli, è stata la condizione prima per avvalorare l’inferiorità.
“Uccidete questa puttana, Mussulmana di merda, Torna nella giungla, Assomigli ad un orango, Mai nessuno che ti stupri”. Inviti graziosamente corredati da lanci di banane, manichini insanguinati, cappi di benvenuto: ecco ciò che ha dovuto subire la ministra Cécyle Kyenge fin dai primi giorni di governo. Espressioni analoghe si rivolgono ogni giorno a Laura Boldrini, e a qualunque donna sia visibile e abbia potere. Ci meravigliamo che la stampa internazionale si stupisca? È un linguaggio che non adopera nessuna forza democratica al mondo, progressista o conservatrice che sia.
Gli insulti sessisti dopo gli anni della rivoluzione femminista avrebbero dovuto sparire, perdere potenzialità offensiva; invece sono ancora lì, come i pregiudizi che li mantengono in vita. Siamo cambiati ma non più di tanto; anzi negli ultimi anni siamo tornati indietro, con una involuzione di cultura e di riconoscimento di diritti.
1 commento
Un libro da divulgare, da leggere, da portare nelle scuole.