Si può essere kamikaze da piccoli? L’ho chiesto alla dott. Cristina Migliardi, psicologa della neuropsichiatria infantile e psicoterapeuta specializzata in psicologia clinica.
– L’ orrore dei bambini utilizzati nelle guerre in tutto il mondo non è cosa nuova, ma negli ultimi mesi salgono alla cronaca sempre più episodi efferati che li coinvolgono. Uno su tutti l’atroce attentato in Nigeria, in cui una bambina è stata fatta esplodere al mercato. I giornali parlano di “bambini-kamikaze”. Lei si occupa di infanzia, come giudica l’utilizzo di questo termine?
E’ difficile pensare a “bambini-kamikaze”, che fanno cioè un atto intenzionale e consapevole, un volontario attacco suicida contro il nemico.
I bambini intorno ai cinque, sei anni si confrontano in genere con l’idea della morte e fanno domande al riguardo. Inizialmente la confondono con un’assenza temporanea, via via realizzano che si tratta di una condizione permanente. A differenza dell’adolescente, è molto raro e difficile che un bambino tenti il suicidio: spesso è la conseguenza di un gesto di cui il bambino non realizza le conseguenze.
– A volte si ha l’impressione che si stia abbassando la soglia di età che definisce l’infanzia? Quanto è una questione culturale e quanto biologica?
I bambini sono soggetti indifesi, bisognosi di appoggio, che facilmente danno fiducia ad un adulto che considerano più competente.
Fino ai 10/11 anni si parla di bambini, dopo di preadolescenti ed adolescenti.
Direi che ci sono caratteristiche fisiche che rendono un bambino tale finchè la crescita non è completata (altezza, peso, sviluppo cerebrale, ormonale, caratteri sessuali secondari) a cui sono legati gli aspetti psicologici (sviluppo delle capacità cognitive, dell’astrazione, dell’ autonomia, delle competenze sociali); la cultura ha sicuramente un peso importante, in quanto in alcune culture il bambino viene protetto ed accudito fino a tarda età mentre in altre viene precocemente responsabilizzato. Tuttavia anche nelle altre culture ritroviamo le stesse tappe di sviluppo, seppure organizzate in forme diverse.
Nel caso dei bambini utilizzati come kamikaze, è evidente che i tratti naturali di fiducia verso l’adulto vengono manipolati con una distorsione totale dell’obiettivo, che non è più promuovere la crescita dei bambini, ma sacrificarne lo sviluppo ai propri scopi.
Il bambino cerca di ottenere in ogni modo l’approvazione dell’adulto, cercando di compiacerlo.
In un ambiente malato, in cui l’adulto non è rispettoso della crescita armonica del bambino e dei suoi bisogni, egli finirà per diventare un piccolo “automa” che deve obbedire, con una personalità impoverita ed aspetti di sè sacrificati. Questo è quanto accade ai bambini che vengono fatti esplodere, visti dall’adulto come strumento-oggetto per portare a termine i proprio obiettivi e non come un essere umano in crescita,da rispettare e salvaguardare
– “Piccolo automa” mi fa venire in mente il video dell’ I’sis in cui un bambino di 10 anni circa uccide ed esulta vittorioso. Sappiamo di bambini rapiti e costretti ad uccidere ma anche di figli di terroristi cresciuti con il fucile in mano. Come si fa a rendere un bambino in grado di compiere un atto così crudele e di apparire così crudele lui stesso? Può bastare il desiderio di compiacere l’adulto?
Svariati studi indicano che bambini precocemente deprivati delle cure parentali sviluppano caratteristiche antisociali; analogamente ambienti pesantemente conflittuali o violenti minano le capacità di attaccamento del bambino. Quanto più precoci e durature sono le esposizioni alle violenze e alle deprivazioni tanto più facilmente il bambino si esprimerà in modo violento ed antisociale.
Per avere un esempio cinematografico basta pensare al “Silenzio degli innocenti” in cui Hannibal Lecter è un pericolosissimo criminale ; in “Hannibal Lecter – le origini del male” scopriamo come lo è diventato, dopo aver assistito alle truce uccisione della sua famiglia. Si può immaginare che questi bambini assistano (e subiscano) a continue scene di violenza.
– Questo bambino crescerà nella violenza se nessuno interverrà.
Da adulto, un essere umano con una infanzia come la sua, sarà in qualche modo recuperabile o sarà condannato alla malvagità?
Certe profonde ferite sono molto difficili da rimarginare, anche ipotizzando psicoterapie molto lunghe. Naturalmente la cura è tanto più difficile quanto più grandi, precoci e duraturi sono stati i traumi subiti. Nel caso specifico di questi bambini, molto dipende anche dalle esperienze vissute prima di questi traumi ; la plasticità del bambino, poi, ci fa anche sperare che ci siano margini di recupero più ampi che nell’adulto.
– Come vivono i bambini e le bambine in uno stato in guerra?
L’ambiente dovrebbe ridurre al minimo gli “urti” ai quali il bambino deve reagire: in condizioni favorevoli il bambino sviluppa quella continuità dell’esistenza che evidentemente assistendo alle guerre viene a mancare, con conseguenti carenze nel senso di sé ed indebolimento della sua personalità
Assistere a violenze alimenta le paure, le angosce, il senso di impotenza e precarietà, laddove le basi per una crescita sana sono date da ripetute esperienze di presenza e stabilità . Bambini segnati da queste esperienze a volte mostrano di possedere resilienza, vale a dire buoni fattori interni o ambientali di protezione, altre volte invece necessitano di qualcuno che condivida con loro il dolore di certe terribili esperienze.
– E i bambini e le bambine che assistono alle torture e le uccisioni anche di coetanei, come sta accadendo ora in Iraq ad esempio, come possono non sviluppare risentimento e odio, come possono non crescere con il desiderio di vendetta?
Naturalmente il desiderio di vendetta è molto forte nei bambini che assistono all’uccisione dei coetanei, anche se talvolta può essere “spostato” su un nemico individuato all’esterno, identificandosi con l’aggressore, con colui che ha ucciso i suoi coetanei; paradossalmente la figura da cui dipende la nostra vita, anche se mostruosa, può suscitare ammirazione. Nel caso in cui la violenza sia perpetuata dalle figure educative di riferimento (come accade anche nelle violenze subite in famiglia), il bambino fatica ad ammettere di avere un genitore non adeguato e in qualche modo cerca di salvarlo identificandosi con chi lo ha accudito e cresciuto, anche se mostruosamente.
Sono molte le organizzazioni nel mondo che si impegnano per fermare lo sfruttamento dell’infanzia.
Il linguaggio giornalistico, non ci stanchiamo di ripeterlo, è complice nel creare immaginari, percezioni che tradiscono la realtà.
Vogliamo cominciare ad essere più rispettosi di chi subisce violenza, in tutte le sue forme, a maggior ragione quando si tratta di bambini e bambine?
Vita delle persone: maneggiare con cura.