Per un’educazione portata alle radici dell’umano.
Nell’ambito del IV Festival delle Donne e dei Saperi di Genere, organizzato dal Centro Interdipartimentale di Studi sulla Cultura di genere dell’Università di Bari, si è tenuto anche un incontro dal titolo “Corpi a scuola. Per un’educazione portata alle radici dell’umano” con Lea Melandri, della Libera Università delle donne di Milano, intervistata da Maria Pia Vigilante, presidente dell’ass. Giraffa Onlus, e Francesca Romana Recchia Luciani, direttora del Festival.
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo
Lea Melandri: “Corpo, individuo e legame sociale sono parti inscindibili dell’essere umano, ma siamo abituati a pensarli come fossero separati, tanto da non meravigliarci che siano diventati oggetto di saperi diversi (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.), quasi sempre senza alcuna relazione tra di loro. Per quanto utile un lavoro interdisciplinare non basta. Occorre trovare il luogo concreto, reale, dove questi aspetti dell’esperienza si danno insieme, in una circolarità che impedisce di dire quale è venuto per primo. Questo luogo è l’individuo, uomo o donna: è da lì che passano sia il tempo biologico che il tempo storico – il fatto di appartenere a una determinata società e cultura-, è lì che tutti questi elementi si organizzano a formare la persona che siamo. La conquista più importante della “rivoluzione” culturale portata dal movimento degli insegnanti negli anni ’70 è stata quella di mettere al centro la “vita intera” e partire da lì, dalla soggettività di ognuno/a per ripensare la società, le sue istituzioni, i suoi linguaggi, i suoi poteri.”
Maria Pia Vigilante, nel citare un articolo comparso tempo fa sulla rivista “Erba voglio” , concorda nella necessità di portare nelle scuole moduli formativi di genere, ma serve anche rivedere il linguaggio di genere e la preparazione anche delle docenti ad affrontarlo.
Lea Melandri: “Il movimento non autoritario nella scuola nel ‘68 e poco dopo il femminismo, hanno rappresentato una specie di rivoluzione copernicana. Il corpo, la sessualità, la vita affettiva, considerate da sempre materia intima, privata, e come tale estranea ai saperi e ai linguaggi della cultura, così come alle grandi questioni della politica, prendevano una inedita cittadinanza e legittimità di parola: il fuori tema diventava il tema.
Ma la scoperta o la presa di coscienza più importante per chi cominciava allora il suo insegnamento, era l’aprirsi di una prospettiva nuova: partire dall’esperienza di ognuno, riportare dentro le aule la vita in tutti i suoi aspetti, creare le condizioni per poterla raccontare farne oggetto di riflessione insieme agli altri. Voleva dire legittimarsi a portare allo scoperto tutto ciò che era rimasto fino allora “il sottobanco”, dare voce al “ragazzo vivo”, contrapposto al “ragazzo scolastico”, per usare l’espressione di uno dei miei allievi della scuola media di Melegnano. L’ “educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di un generico invito al rispetto reciproco deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Nel momento in cui si scopre che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere.
Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato.
Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva -esibizionismo e voyeurismo – che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera?
Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza – cura e conoscenza di sé -, così come è importante la dimensione collettiva. Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto.” La proposta pratica della Melandri è di estrapolare dalle scritture (tipo “Piccolo principe carnivoro” di Lefebvre) dei frammenti e consegnarli agli studenti perché sottolineino le parole o frasi che li colpiscono e poi trascrivendole altrove da consegnare agli altri che li commentino a loro volta con le loro esperienze di vita e sensazione provate.
In tal modo fanno tirar fuori dal “sottobanco” le esperienze di vita dal proprio vissuto.
Ha ricordato il testo “L’ultimo paradiso” Einaudi ’86, quale Mineralogia del pensiero, in cui da frammenti di parole, quali cristalli di pensiero, si ricavano schegge e si creano parole.
La scuola ora contestualizza, mentre secondo Lea Melandri bisogna decontestualizzarla.
Francesca Romana Recchia Luciani ha parlato della seduzione della sottomissione e che oggi si disimpara sul genere. Ha ricordato scritti di Socrate che aveva già dai suoi tempi individuato tali mali. Bisognerebbe imparare l’arte dell’ascolto.
Concludo che la proposta andrebbe ampliata. Per una destrutturazione degli stereotipi già presenti nelle prime classi delle scuole dell’infanzia, propongo di partire dalle immagini e dal gioco, due elementi accattivanti per i bambini, per rimescolare i saperi dei mestieri e delle azioni oggi attribuiti in modo categorico e stereotipato a singoli generi invertibili ma precisi.”