Ecco il mio personale ricordo del Nepal, con cui vorrei omaggiare un luogo meraviglioso e che ho fortemente amato. Rileggendolo ora mi viene da piangere, molti di quei luoghi che ho visitato non esistono più…
Kathmandu, Nepal, marzo 2007.
Andai a Kathmandu per leccarmi le ferite. Sembrava un posto naturalmente mistico, ed io avevo bisogno di spiritualità come aria per i polmoni. Mi ero separata pochi mesi prima, con un figlio piccolo al seguito, senza casa e senza lavoro.
Sistemai come meglio potevo il pargolo, le piante ed il gatto siamese, e comprai d’impulso un pacchetto turistico per il Nepal. Mi feci dare un passaggio a Fiumicino da uno dei tanti amici che mi considerava una pazza, e dopo circa cinque ore di volo sbarcai sul tetto del mondo.
All’aeroporto internazionale di Tribhuvan gli addetti del tour operator riunirono i partecipanti al viaggio, altre anime inquiete come me. Salimmo ordinatamente in un bus turistico ed io andai a sedermi vicino ad una figura oblunga, “un’altra quarantenne in cerca di se stessa” pensai sorridendole. Il suo nome era Chiara come la sua carnagione: aveva i capelli rossi e delle efelidi che le coloravano il volto. Come tutte le persone estremamente alte e magre possedeva un’eleganza naturale, esagerata, nel suo caso, da nobili origini. Ci prendemmo le “misure”, studiandoci discretamente a parole: eravamo due snob al cubo, fu subito evidente, introverse e vagamente annoiate dalla vita. La nostra parola preferita era Spleen.
Ben presto scoprimmo di avere gli stessi gusti: l’Ashtanga Vinyasa Yoga, una cotta per Niels Bohr e la sua meccanica quantistica, la musica sufi di Nusrat Fateh Ali Khan, l’uso smodato delle spezie in cucina, il nuoto, l’equitazione e qualche lezione di tango. Era come se la costituzione fisica similare avesse condizionato le nostre scelte, e ci avesse condotto a quel fatidico incontro che stava facendo di noi delle amiche per la vita. “La terra girò per avvicinarci, girò su stessa e dentro di noi fino ad unirci finalmente in questo sogno”.
Sul sedile posteriore stavano seduti due sconosciuti a se stessi, coloro che sarebbero diventati gli altri lati di un quadrato perfetto, intelligente e divertente, che attraversò il Nepal in una vacanza memorabile.
Lui si chiamava Sandro ed era un giudice togato che somigliava terribilmente a Woody Allen. Aveva spessi occhiali che portava, calanti, sul naso a patata, e radi capelli spettinati che ricoprivano un cranio lucido e vagamente allungato. Era basso e secco, con ossa fragili che affioravano spolpate da un’improbabile maglietta da macho. Nonostante la sua corporatura esile si offrì di portarci le valige per tutto il viaggio, precipitando rovinosamente a terra più di una volta; nemmeno la natura può impedire ad un uomo di essere galante se questo è iscritto nel suo codice genetico!
Lei si chiamava Miriam ed era un’ilare donna siciliana dai capelli castano chiaro, un po’ in carne e molto affascinante. Aveva un senso dell’umorismo sagace e raffinato, ed una spiccata attitudine all’osservazione che, solo in seguito, scoprimmo era dovuta al suo lavoro. Alla fine del viaggio, quando oramai avevamo fatto di tutto e ci eravamo detti di tutto, ci confessò candidamente di essere un commissario di polizia; nonostante l’epico racconto delle nostre gesta di gioventù – specialmente le mie – nessuno di noi finì in galera.
Arrivammo in Durbar Square, nella città vecchia di Kathmandu, che era l’imbrunire. La guida ci lasciò un’ora di tempo per fare un breve giro ed ambientarci, mentre l’autobus portava i nostri bagagli in un lussuoso albergo. La vita della piazza era vivace e colorata, un frenetico sorriso in movimento; le prime foto la feci ad una venditrice di fiori, grassoccia e con un rossetto sfacciato, che canticchiava spensierata in un angolo come un usignolo appoggiato ad un ramo, e ad un vecchio sdentato che pregava in ginocchio sul marciapiede.
Io e miei nuovi amici avevamo già fatto gruppo e ci muovevamo come fossimo un identico corpo. Eravamo una falange e ci spostavamo ad un unico passo e ad un solo respiro, coprendo ogni lato, in un patto d’alleanza mai ratificato. Di fatto scoprimmo che di pericoli non ve n’erano, e che in Nepal, a quelle mistiche altezze, si è troppo vicini a Dio per delinquere e nessuno badava a noi. Camminavamo invisibili, indifferenti ai venditori ambulanti, indifferenti agli adulti, indifferenti ai bambini. Solo i cani sembravano notarci, attratti da un odore diverso che ci portavamo dietro da un paese lontano.
La piazza si andò progressivamente illuminando con tante piccole luci che ricordavano quelle dei presepi, e un forte profumo di cibo si propagò ovunque, entrando nei vestiti e posandosi sui capelli. Io fui tentata da una sorta di spiedino di carne e verdure, colorato e succulento, ma memore delle numerose sventure gastriche in giro per il mondo passai oltre e ripiegai su di un’innocua catenina col Buddah, apotropaica. Anche il resto del gruppo si gettò sui souvenirs. Costava tutto pochissime rupie, ed entusiasti per i nostri acquisti lasciammo mance a destra e a manca, facendo felici diverse famiglie nepalesi.
Dopo un’ora esatta il vociare allegro della guida ruppe l’incanto di Durbar Square, e ci radunò come una chioccia, ammassandoci e poi contandoci come si fa coi bambini ribelli di una scolaresca. Io arrivai per ultima, facendogli capire che quella era la mia indole e che sarebbe stata una costante di tutto il viaggio. Lui mi sorrise ed aspettò che mi ricongiungessi al gruppo, con una pazienza tutta orientale: il figliol prodigo è sempre il preferito del padre.
Arrivammo in albergo che era buio pesto. Facemmo una doccia veloce e poi ci buttammo sul buffet.
Mi svegliai di primo mattino, energica e ben riposata e scesi nella sala ristorante per un’abbondante colazione. La guida organizzò un veloce briefing, in cui ci spiegò il programma di viaggio e le norme base di “condotta” a cui dovevamo attenerci, nel rispetto reciproco. Presi nota mentalmente di tutto, annuendo di tanto in tanto in segno di assenso, distrattamente. In realtà, mentre il corpo era costretto a restare seduto in una lussuosa poltrona rosso bordeaux, la mente era in viaggio, ed io ero già arrivata in prossimità dell’Annapurna…
La giornata fu tutta un girare frenetico. Visitammo Kathmandu in lungo e in largo, con passo militare, cercando di gustare per intero il suo misticismo. Io vivevo in maniera empatica, e odoravo e toccavo ogni cosa quasi ritenessi che la vista non fosse un organo di senso sufficiente a farmi assorbire e decodificare quella nuova realtà. Avevo bisogno di capire fisicamente ed intimamente il motivo per cui quella gente sembrava così vicina a Dio, e distaccata dalla pesantezza della materia e dai suoi problemi. La loro semplicità e la devozione squarciavano il petto ed arrivavano dritti al cuore, toccandolo e lasciandolo in una confusione fibrillatoria. Tutti erano in pace, pur in uno stato di povertà relativa; noi sprigionavamo ansia ed irrequietezza, sebbene fossimo agghindati di tutto punto. Dovevano avere un segreto, pensai, e io lo volevo.
Arrivammo al Kumari Bahal alla fine del nostro “pellegrinaggio” in città, stanchi ed appesantiti dagli innumerevoli souvenirs acquistati ad ogni angolo, orpelli che tradivano i nostri gusti ed un enorme senso di vuoto.
Il palazzo delle Kumari è un edificio monastico del XVIII secolo situato in piazza Basantapur. E’ candido come la neve, un rimando alla purezza delle anime che lo abitano, ed ha due enormi leoni in pietra all’ingresso che sembrano vegliare e fare la guardia. Qui vive la Kumari Devi, la dea vivente degli Hindu. Essa è l’incarnazione di Taleju Bhavani (Durga) protettrice della famiglia reale, ovvero Kanya Kumari, una delle 62 forme di Parvati la moglie di Shiva. Il suo nome in sanscrito significa figlia o vergine, e viene scelta ritualmente fra le bambine della casta dei Sakya, la stessa cui apparteneva il Buddha storico. La Kumari viene devotamente venerata da tutto il popolo nepalese, e mantiene la sua reggenza sino all’arrivo della prima mestruazione, ovvero può essere detronizzata anche in seguito a malattie o perdite di sangue in quanto non può in alcun modo ricevere cure mediche. La presenza del sangue viene comunque e sempre letta come un segnale che la divinità ha lasciato il corpo della bambina, e da quel momento in poi inizia la ricerca del successore. La sua vita trascende l’ordinario, completamente estranea ai problemi materiali, e si ritiene che abbia particolari poteri di divinazione e percezione; i suoi responsi sono tenuti in massima considerazione da chiunque, tanto da ricevere spesso la visita dagli stessi membri del governo e della famiglia reale.
Ci avvicinammo al Bahal, mischiandoci alla calca variopinta di turisti e fedeli. Eravamo un corpo eterogeneo di carne, formato da genti diseguali, che parlava tante lingue. Le nostre braccia si toccavano con altre braccia, le mani, i piedi, i volti si sfioravano leggeri, in un mescolio di pelli ed odori che ricordava la confusione delle razze nell’antica Babilonia. Non ci capivamo, ma il nostro intento era il medesimo ed eravamo disposti ad aspettare ore per un Suo sorriso. La tradizione vuole che un qualsiasi gesto dedicato della Kumari sia foriero di fortuna e successo, e che essa sia in grado di guarire le malattie dei suoi devoti visitatori. Per questo motivo il suo palazzo è una meta costante di pellegrinaggio e una folla si assiepa giorno e notte nella piazza antistante. Io mi guardavo intorno eccitata, spiando qualsiasi sussulto popolare, e avida di assorbire quella straordinaria energia che serpeggiava in città. Nella confusione di voci intrecciavo nervosamente i miei capelli, tessendoli e sgranandoli quali fossero le perle di una mala, in un’attesa condivisa con decine di altre anime.
Il tempo passo lentamente, ma non invano.
L’apparizione fu fugace, giusto la misura pochi battiti di ciglia. Una ragazzina gracile, vestita di rosso e con i capelli tirati indietro, si affacciò da una finestra del terzo piano provocando le urla generali. Era la Kumari, al secolo Preeti Sakya. La piccola dea abbracciò la piazza con gli occhi, in un atteggiamento serio e compito che compensava la figura esile e la tenera età. Mentre girava il volto sembrava guardare personalmente ognuno di noi, in un dialogo muto e ieratico, non facilmente decifrabile per un occidentale; era come se una statua della Madonna bambina avesse preso vita in una chiesa capitolina, e fosse discesa fra i credenti dal suo bel piedistallo barocco, abbandonando per un istante il coro degli angeli.
La visione durò solo qualche istante e tutti trattenemmo il fiato.
Quando alla fine le sue labbra si aprirono in un largo sorriso, fu come se la folla respirasse di nuovo, scossa da un unico moto vibratorio. Era una sorta di trance collettiva, inebriante ed estatica; il velo di Maya era calato, e ci aveva permesso di scorgere l’altrove, per un momento. La piazza pulsava.
Noi turisti ci guardammo intorno confusi, mentre le menti annaspavano, momentaneamente disequilibrate dalla visione di una divinità in carne ed ossa. Sostanzialmente scettici, non eravamo totalmente convinti del “miracolo”, e cercavamo risposte logiche e razionali a quella religiosità inconsueta, laddove non vi erano né logica né razionalità.
La guida ci spiegò che eravamo stati “benedetti” e che il sorriso della Kumari era da considerarsi un segno di buon auspicio, che avrebbe portato gioia e prosperità nelle nostre vite.
All’imbrunire lasciammo la piazza ancora festante, e ci dirigemmo verso l’albergo.
Eravamo ancora miscredenti, ma nonostante tutto pensammo alla piccola dea per l’intera notte.
Stupa di Swayambounath, 28 marzo
Swayambounath è una visione fuori dal tempo dato e dallo spazio manifesto.
Lo stupa è un monumento buddhista originario dell’India, la cui funzione è quella di conservare reliquie religiose; storicamente il primo stupa era un semplice tumulo di terra che serviva a coprire e custodire le ceneri del Buddha, dopo che il suo corpo venne cremato e sepolto in otto luoghi diversi.
Il suo nome in sanscrito significa il “fondamento dell’offerta”. Allegoricamente rappresenta la mente illuminata del Buddha e il sentiero che porta al suo compimento: esso è l’espressione materiale e tangibile delle qualità più elevate che un essere vivente può sviluppare, sino al raggiungimento del Nirvana stesso per mezzo di una piena e completa realizzazione spirituale.
Lo stupa è composto da diverse parti ciascuna delle quali ha un significato preciso e determinato, con un evidente rimando cosmologico ed archetipico. La sua costituzione è estremamente complessa, ma brevemente si può dire che ogni monumento deve comprendere cinque figure geometriche fondamentali, risultanti di altrettanti chackra (radice, ombelico, cuore, gola e corona), e che a loro volta corrispondono agli elementi costituenti il nostro pianeta: terra (basamento quadrato), acqua (cupola emisferica), fuoco (struttura conica formata da 13 livelli o fasi necessarie al raggiungimento della perfezione), aria (ghiera a forma di ombrello) e spazio o etere (pinnacolo con luna e sole). La sua strutturazione trova corrispondenza nelle varie parti del corpo del Buddha seduto in meditazione, la qual cosa è messa massimamente in risalto dalla presenza degli occhi disegnati sul reliquario che raffigura la testa. Tradizionalmente si ritiene che esso irradi un’enorme quantità di energia positiva in tutto l’ambiente circostante, apportando amore, pace e saggezza a tutti gli esseri viventi, e conducendoli al contempo lungo il sentiero dell’illuminazione.
Io e la mia truppa ci incamminammo in fila indiana su per la scalinata che conduce allo stupa. Eravamo in ordine di altezza, capitanati da Mr. Woody Allen che cercava invano di scacciare le innumerevoli scimmie che vivono in prossimità del tempio e che avvicinano i turisti in cerca di qualche avanzo di cibo, importunandoli senza tregua. Il novello Sandokan si faceva largo con un kriss dalla lama serpeggiante e l’impugnatura d’osso, l’ultimo acquisto di una lunga serie di pugnali che collezionò per tutto il viaggio, e che tradivano la realtà di un’ambigua mente criminale messa al servizio della legge. Le bestie lo osservavano indifferenti e curiose, e per lo più lo snobbavano; il cervello delle scimmie è anarchico per definizione.
Il complesso monumentale si trova in cima ad una collina ad ovest di Kathmandu, dalla cui estremità si gode un magnifico panorama della città e del paesaggio circostante. Centinaia di Lung-Ta nei colori tradizionali sventolano senza sosta intorno agli edifici sacri, quale simbolo tangibile della spiritualità e della profondità di quei popoli; sono i celeberrimi “cavalli di vento”, piccoli rettangoli di stoffa legati con una cordicella e contenenti simboli buddhisti e Sutra. Secondo la tradizione le correnti d’aria dell’Himalaya portano le parole verso il cielo e con esse le preghiere in segno di devozione: “Om! Proteggici Buddha, Grande, Virtuoso, Santo! Om! Come la Luna nuova va salendo in cielo, così tu Lung–ta Cavallo del vento e del buon auspicio, porta in alto di vetta in vetta, le fortune di tutto un popolo, il suo destino, i suoi beni, i suoi figli!”.
Affaticati dalla salita ma entusiasti nell’animo, alzammo lo sguardo per ammirare i due enormi occhi del Buddha, dipinti sulle pareti dello Stupa, che ci sovrastavano e che sembravano osservare con indulgenza la folla di fedeli che si accalcava ai loro piedi. Ci trovavamo al cospetto di uno degli edifici religiosi più fotografati al mondo, in un luogo dove la spiritualità è tangibile e si può respirare come aria fresca. Era emozionante, eravamo in pace, ed io mi lasciai cullare dal profumo degli incensi e dal suono del mantra diffuso dagli altoparlanti, in maniera continuativa: “Om Mani Peme Hung”, “Salve o Gioiello nel Fiore del Loto”. Era il celebre mantra della Compassione piena di amore di Avalokiteshvara, la formula sacra più importante per i buddhisti poiché in poche sillabe condensa tutto il cuore dell’insegnamento religioso, e la cui ripetizione contribuisce allo sviluppo di tutte le maggiori qualità umane quali la generosità, l’armonia, la comprensione e l’entusiasmo.
La musica ci guidò con una forza ipnotica e quasi senza accorgercene ci trovammo risucchiati nel flusso di persone che deambulava intorno allo stupa. La circoambulazione rituale è un atto fondamentale che conferisce enormi benedizioni a chi la compie, indipendentemente dalla sua fede religiosa. Dice il Buddha che, attraverso di essa, si ottengono i seguenti benefici: “Libero dalle Otto circostanze sfavorevoli, rinascerà in una nobile famiglia e possiederà grandi ricchezze; libero dalle emozioni disturbanti, amerà praticare la generosità, avrà un aspetto attraente e una bella carnagione, gli altri gioiranno nel vederlo, sarà potente nel mondo e diventerà un re del Dharma; rinascerà come un essere fortunato, e divenuto uno yogi, farà grandi miracoli e otterrà gradatamente i 32 segni di purezza e le 80 perfezioni del corpo di un Buddha”.
Io camminavo lentamente, accanto a Chiara. Ci tenevamo per mano, serie e compite, in una sorta di atavica e viscerale complicità femminile. Con sguardo sognante, giravamo le ruote di preghiera alternandoci e orando per i nostri rispettivi desideri: lei aveva conosciuto da poco un uomo con cui costruire, io avevo bisogno di fare spazio nella mia vita e stare un po’ da sola. Le nostre suppliche avevano una qualità sostanzialmente antagonista.
“Namasté” le dissi.
“Mi inchino alla divinità che è in te” rispose.
Pashupatinath è uno dei luoghi di pellegrinaggio più sacri del Nepal, il posto dove la vita e la morte si incontrano, sfidandosi sottilmente a duello. Il fiume Bagmati lo attraversa in tutta la sua lunghezza, dividendolo in due sponde contrapposte che si fronteggiano, e che presentano elementi apparentemente in contrasto: la vita da una parte, e la morte dall’altra. Sul lato destro si trovano i devoti, le donne, gli animali e i bambini, con tutta la loro gioia e vitalità; su quello opposto vi sono le pire funebri che bruciano senza sosta, inscenando un dramma perenne che prevede la dissoluzione dei corpi e delle forme, ormai divenuti inutili ed obsoleti.
– “CAVALIERE: La Morte è venuta a cercarmi questa mattina. Abbiamo cominciato una partita a scacchi. Questa proroga mi permette di sbrigare una faccenda che mi sta a cuore.
– MORTE: Di che si tratta?
– CAVALIERE: La mia vita era vuota. L’ho passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare a vanvera di cose insignificanti. Lo dico senza amarezza né rimorso, perché so che la vita della maggior parte della gente è così. Ma ora voglio utilizzare questa proroga per un’ultima azione che abbia un senso.
– MORTE: E’ per questo che giochi a scacchi con la Morte?
– CAVALIERE: Si, è un avversario temibile e molto abile, ma per ora non ho perso neanche un pezzo.
– MORTE: Ma come fai a tener testa alla Morte?
– CAVALIERE: Uso una combinazione di alfiere e cavallo che non ha ancora capito. Alla prossima mossa le porterò un attacco sul fianco” (Il settimo sigillo).
Arrivammo a Pashupatinath all’alba, in tempo per le cremazioni. Io non sapevo cosa aspettarmi, né come avrei reagito a quello che pensavo sarebbe stato uno spettacolo duro e cruento. La visione dei morti mi scioccava, rammentandomi i peggiori momenti della mia esistenza, costellata da una lunga serie di drammi e malattie; mia madre, mia nonna, mio padre, e gli echi di innumerevoli fantasmi che popolavano la psiche, tormentandomi e togliendomi la pace. Conoscevo personalmente l’oscura signora e il suo macabro cinismo, e non volevo rivederla… I suoi odori e i suoi colori avevano forgiato la mia infanzia, ed io avevo passato tutti gli anni successivi nel tentativo di cancellarla dalla mia mente. Per me la parola morte era solo uno dei tanti sinonimi di “rimozione”.
Venimmo dirottati immediatamente sul lato destro del fiume, il regno delle bancarelle e dei venditori ambulanti, dei turisti e dei sadhu in preghiera, mentre nell’altro versante si consumavano i riti di morte in tutta la loro solennità. Ci dissero che potevamo usare indisturbati le macchine fotografiche, ed io mi apprestai a fare il “reportage” di una cremazione, cosa impensabile in occidente dove l’atto del morire si cela e si nasconde agli occhi indiscreti dei curiosi.
Con fare distaccato misi a punto la mia reflex, come un chirurgo che dispone i suoi ferri per un’operazione, o un killer che appronta l’arma per un omicidio. Inserii il teleobiettivo, impostai l’esposizione, calcolai automaticamente il tempo: mi stavo preparando tecnicamente a spiare il dolore.
Presi alcuni scatti agli asceti coi capelli intrecciati ed i corpi pitturati che mi giravano intorno, tanto per calibrare il tiro della Nikon. Quindi voltai lo sguardo alla mia sinistra, verso l’altra sponda del fiume.
Li vidi arrivare da lontano. Erano in sei, sei sacerdoti vestiti di bianco che portavano a braccio quello che scoprii essere un cadavere, ricoperto da un candido sudario. Dinnanzi a loro camminava un giovane uomo, con un braciere da cui si levavano i fumi dell’incenso. “Il figlio del defunto”, mi spiego la guida. “Quello è il primogenito e dovrà presenziare a tutte le fasi del rito. Ora lui scende al fiume e si rasa completamente i capelli, seguito dagli altri suoi fratelli, in segno di lutto e di rispetto. Poi risalirà e darà fuoco alla pira funebre”.
Non avrei fallito una foto, pensai. Avevo un informatore affidabile e preparato che mi anticipava tutto ciò che sarebbe successo da lì a breve. Puntavo l’obiettivo sul luogo giusto e al momento giusto, esattamente come un cecchino che dapprima studia il colpo col suo Avtomat Kalasnikova Obrazca !947 Goda, Kalashnikov per gli amici, e poi pigia il grilletto, andando sempre a segno.
– “Ora depongono il corpo sul ghat al fiume, e lo adornano di fiori”. Scatto: perfetto!
– “Osserva con attenzione… I sacerdoti lo ricoprono con teli e polveri colorate, mentre recitano preghiere tratte dalle sacre scritture dei Veda”. Zoomo, aggiusto il tempo. Click. Ok.
– “Adesso sta attenta e preparati. Il morto viene sollevato e rimosso dall’altare al fiume, e portato a braccio dai sacerdoti, tre per lato. Guarda… Ci sei?” Si, ci sono.
– “Vedi? Fanno compiere alla salma tre giri intorno alla pira. La adagiano sui ceppi, i piedi rivolti a sud il regno della Morte, e la testa a nord il regno della Ricchezza. Quindi fanno altri tre giri da soli, a mani vuote”. “E il figlio?” chiedo. “Ora arriva. E’ il suo turno”.
– “Eccolo. Fa anch’esso tre giri intorno al cadavere, in senso antiorario”. “Cosa getta sul corpo?” domando. “E’ acqua o ghee, non so. La bocca del morto dovrebbe essere bagnata con dell’acqua proveniente dal fiume Gange, se possibile”.
– “Ecco, ora si inizia col fuoco…” Mi preparo e osservo.
– “Il primogenito accende i legni posti vicino alla testa del defunto e introduce dei tizzoni ardenti nella bocca del morto. Poi se ne va e abbandona la cerimonia. Ora i sacerdoti danno fuoco a tutta la pira e, durante il rogo, recitano incessantemente delle preghiere, invitando le varie parti del corpo a ricongiungersi con gli elementi della natura: la voce col cielo, il respiro col vento, gli occhi col sole…”. “Ascolta…parlano direttamente all’anima… Parti, parti per gli antichi sentieri dei nostri antenati… Il fuoco viene considerato il veicolo principe che la condurrà alla sua incarnazione successiva…”.
Era incredibile, a ripensarci, ma non provavo emozioni. Era tutto così naturale, e semplice. Il pathos era bandito.
– Scatto. Scatto ancora, senza sosta, mentre ascolto assorta il crepitio della pira che si confonde con la voce della guida. “Alle fiamme occorrerà qualche ora per consumare il cadavere. Poi i parenti e gli amici del defunto torneranno a casa, si laveranno e si vestiranno di bianco, il nostro colore del lutto. Infine come ultimo gesto puliranno la casa, contaminata dalla morte e quindi considerata impura”.
– “E le ceneri del defunto?” chiedo io. “Verranno raccolte e disperse, preferibilmente nelle acque di un fiume sacro, il Gange o un suo affluente, come il Bagmati per l’appunto”. E continua: “La cremazione nella religione indù viene considerata la modalità più veloce per permettere all’anima di raggiungere una nuova dimensione, cosa impossibile finché il vecchio corpo esiste come tale. La tumulazione praticata da voi in occidente richiederebbe troppo tempo…”.
– La guida resta un attimo in silenzio, come assorto in frasi e parole che mi sfuggono e che non comprendo. Guardiamo la pira che brucia, e pensiamo a quel corpo ormai senza vita che si sta consumando. Non c’è tensione alcuna, in nessuno di noi due. Dopo qualche minuto lui si gira e mi guarda: “ill rito è finito. Andiamo”.
– Le sue parole risuonano come un ordine ed io obbedisco. Metto a posto la fotocamera nello zainetto, rimuovo lo zoom, lo pulisco, con gesti automatici che faccio da anni. Ogni cosa ha un suo spazio ed io cerco di essere più ordinata possibile, pur nella fretta. Infine alzo lo sguardo, e scopro che sono tutti partiti; sono sempre l’ultima penso, la mia curiosità mi obbliga a spremere le situazioni sino in fondo.
Mi svegliai alle otto in punto. Era la mattina del mio compleanno.
Scesi nella hall urlando la notizia ai miei amici che mi si buttarono al collo cingendomi con tutto il loro traboccante affetto, oscillandomi come un pendolo. Travolta dai baci e ripiena d’amore, annunciai loro che avremmo fatto qualcosa di speciale ed entro sera ci saremmo tutti ubriacati di champagne. Il giorno precedente la guida ci aveva preannunciato che avremmo avuto la giornata libera, ed io avevo subito iniziato a fantasticare: una bella gita, tanti regali, e un fiume di bollicine che scendeva giù per la gola…
Ci confrontammo per una mezz’ora senza ottenere risultati tangibili, a dimostrazione che la democrazia in taluni casi non funziona. Alla fine presi in mano la situazione e dissi che, in quanto festeggiata, spettava a me decidere.
“Ragazzi, oggi sorvoleremo l’Himalaya!!! Che c’è di più fico???”. A nessuno venne un’idea migliore.
Ci facemmo accompagnare all’aeroporto, domestic flight, da dove partivano i voli dell’evocativa Buddah Air. Il suo motto era: “Stop thinking. Start travelling”. Alla biglietteria sborsammo un sacco di dollari per un giro di un’ora, ma io obiettai che quello non era “un semplice tour bensì un sogno che si stava realizzando!”. Obbedirono, la democrazia era ormai morta: eravamo sotto dittatura, la mia.
Li incanalai lungo il gate che portava al nostro volo, li feci salire sulla scaletta un po’ malconcia dell’aereo e scelsi loro persino i posti. Io e Chiara vicine ed inseparabili, Woody e Miriam alle nostre spalle.
Una volta seduti iniziai una lunga disquisizione, rincoglionendoli di nozioni: l’Himalaya e la spiritualità tibetana, gli incredibili “poteri” dei Lama, la teoria della terra cava, Agarthi il Regno, Shamballa la capitale, la Blavatsky e la Società Teosofica, il nazismo esoterico, la Thule-Gesellschaft, le spedizioni di Schafer e le SS. Risi di gusto: stavo tenendo una lezione di esoterismo ad un giudice, un commissario ed una pubblicista che mi guardavano ammutoliti, come se stessi parlando del multi verso!
Mi azzittii solo quando si accesero i motori, e non prima di aver terrorizzato mezzo aereo che ora pensava solo alle truppe naziste che avevano attraversato quelle terre, marciando a passo d’oca sulla neve.
Ora tacevo e guardavo assorta giù dal finestrino. Sotto di me si stendeva un mare bianco che si perdeva a vista d’occhio, coi suoi canaloni e le sue piste note solo agli sherpa locali. “Qui i confini sono fatti da cristalli di neve” pensai “e mutano secondo le stagioni. Si sciolgono in estate e poi si ricreano l’anno successivo, indefinitamente”. Era una geografia irrisolta.
Improvvisamente comparve, alla mia destra. Una piramide di roccia e di ghiaccio che si stagliava contro il blu del cielo.
Quale simbolo trascendente ed a conferma della sua unicità, si presenta androgino già nel nome: è femmina in Tibet dove viene chiamato Chomolangma, la madre dell’universo, mentre in Nepal è maschio e il suo nome è Sagaramatha, il dio del cielo. Il resto del pianeta lo conosce semplicemente come monte Everest, amante ossessivo, compulsivo, e meta irrisolta di tanti alpinisti. Sui libri di scuola è la maggiore vetta del mondo, e le maestre imprimono la sua altezza nella memoria di intere generazioni: 8848 metri sul livello del mare. Circa.
Ebbi un brivido che corse lungo la schiena: la visione era solenne, ed io fui commossa da tanta bellezza. Le montagne sono davvero la casa degli dei! Chiusi gli occhi. Immaginai per un attimo la passione di quanti avevano tentato la sua ascesa. Vidi le vite perse degli alpinisti, morti lungo i suoi costoni, e le urla di gioia di chi invece ce l’aveva fatta. Emozione, incanto; rabbia, paura. E sopra a tutto l’amore per la montagna…
All’interno dell’aereo nessuno parlava e si sentivano solo gli scatti delle macchine fotografiche che cercavano di rubare un’immagine del paesaggio, mentre l’altoparlante gracchiava informazioni tecniche fornite dal comandante: altitudine, temperatura esterna, umidità eccetera. Intanto sotto di noi il panorama mutava e vedemmo in rapida successione una serie di vette dai nomi esotici: Lhotse, Lho La, Khumbutse, Changtse, Nuptse e il ghiacciaio Khumbu.
Un sussulto del velivolo ci risvegliò dal nostro torpore, ricordandoci bruscamente che eravamo a bordo di una fragile macchina metallica che sorvolava una zona piena correnti d’aria notoriamente pericolose, e che il volo appartiene elettivamente solo agli angeli ed agli uccelli. Un giovane hostess dagli occhi a mandorla ci tranquillizzò immediatamente, informandoci che avremmo virato da lì a breve e che presto sarebbe iniziata la discesa verso l’aeroporto. Era già passata un’ora ed il nostro sogno himalayano stava per concludersi.
Atterrammo in meno di dieci minuti. Il pulmino ci attendeva già da un po’ e l’autista ci invitò a salire velocemente perché stava per piovere. Un cielo plumbeo era improvvisamente caduto in terra, e dei nuvoloni neri e minacciosi coprivano ormai definitivamente le vette che avevamo sorvolato solo mezz’ora prima. “Tutto è in perenne mutamento…” pensai.
Una volta arrivati in albergo passammo il resto del pomeriggio nella hall a chiacchierare e a vedere MTV India. Intorno alle diciannove ordinai una bottiglia di champagne e mezzi ubriachi iniziammo a ballare le Bollywood songs in mezzo ad una folla di turisti che ci guardavano perplessi e che pensavano “i soliti italiani!”.
Alla fine della giornata tornai in camera, soddisfatta e decisamente sbronza. Andai in bagno, mi osservai attentamente allo specchio e presi a contare le nuove rughette e i capelli bianchi: “quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: del doman non c’è certezza”.