L’economia sarebbe diversa se si desse più ascolto alle donne. Lo afferma Giovanna Badalassi esperta di economia di genere
Giovanna Badalassi, genovese del ’69, sposata, con una figlia di 16 anni e un figlio di 11 anni, dopo la Laurea in Economia e Commercio ha iniziato come revisore contabile e poi è diventata professionista freelance nel 1998 come consulente tecnico presso enti pubblici nel settore delle Politiche di genere, del Lavoro e della Formazione Professionale. Ha fatto per alcuni anni l’analista e la ricercatrice delle dinamiche del mercato del lavoro locale, poi si è specializzata nella redazione dei bilanci di genere e nella ricerca sulle tematiche di conciliazione e di pari opportunità. Ad oggi ha sviluppato più di una trentina di bilanci di genere tra Regioni, Province e Comuni, oltre a diverse consulenze per Istituti di ricerca. Collabora da diversi anni con l’Università di Modena e Reggio Emilia con il CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche) – Unità di ricerca GenderCapp. Da quest’anno con un’amica e collega, Federica Gentile, ha aperto un Blog, www.ladynomics.it per fare divulgazione sui temi dell’economia di genere.
Cosa vuol dire gender budgeting?
Perche’ esiste una differenza di genere nel budgeting e quanto incide sula vita quotidiana?
Il gender budgeting, o bilancio di genere, è uno strumento di analisi che mette in evidenza le differenti ricadute delle politiche pubbliche su donne e uomini. Si vuole dimostrare che le politiche non sono neutre rispetto a questa differenza e che, anzi, spesso producono una discriminazione nascosta. Il “cittadino” non è infatti una figura astratta e anonima, ma che, proprio in quanto uomo o donna, presenta una tale varietà e complessità di bisogni ed esigenze che, se ignorati, finiscono con il generare disuguaglianze consistenti.
E’ quindi importante svolgere un esercizio di studio e di approfondimento che permetta di meglio comprendere l’impatto di tutte le politiche pubbliche, non solo quelle che già sappiamo essere favorevoli alle donne.
Se infatti parliamo di asili nido o welfare siamo già abituati a pensarle come politiche al femminile.
Meno immediato è parlare invece di impatto di genere delle politiche per i trasporti, per lo sviluppo economico, per le attività produttive, l’ambiente, le infrastrutture, ad esempio.
Con il gender budgeting si applica quindi il principio del gender mainsteaming, che richiede proprio la capacità di sviluppare politiche di genere con questa prospettiva trasversale.
Se ben applicato il gender budgeting può quindi rivoluzionare le nostre vite e rendere le politiche pubbliche più vicine agli effettivi bisogni di tutti e di tutte.
Questo richiede però una forte volontà politica che sia in grado di cambiare le priorità e di mettere al centro dell’attenzione i bisogni delle donne e degli uomini, rilanciando anche un approccio favorevole allo sviluppo umano inteso come investimento di medio lungo termine sulle persone.
Questo cambiamento sarebbe molto importante anche per l’efficacia e l’efficienza della pubblica amministrazione, perché spenderebbe le risorse pubbliche con meno sprechi e un impatto maggiore sul benessere di tutti.
L’economia sarebbe diversa se si desse più ascolto alle donne?
Assolutamente si!! Le donne, tutte, hanno un vissuto differente da quello degli uomini. Quali che siano le loro scelte da adulte e la direzione che abbia preso la loro vita, sono state (quasi?) tutte educate con valori e principi diversi da quelli degli uomini, poiché dovevano essere pronte a diventare protagoniste del lavoro familiare. In questo senso il famoso libro di Elena Belotti, “Dalla parte delle bambine”, ci illustra con chiarezza quale differenza nei modelli educativi ci si tramandi di generazione in generazione. Nonostante i forti cambiamenti di ruolo di donne e uomini negli ultimi due secoli, il nostro vissuto quotidiano ci dimostra ogni giorno quanto tali differenze siano ancora forti. Se questa maggiore “educazione alla cura”, abbinata alla pressione sociale, è stata e tuttora è un fattore discriminante per la crescita personale e professionale delle donne, una sua rilettura ed espressione in termini politici ne valorizza invece il forte orientamento al benessere collettivo. Tra la cura della famiglia e la cura della comunità il passo è breve. Ci manca però ancora l’empowerment, gli strumenti e soprattutto la consapevolezza che una politica rivolta al femminile, non solo come personale politico ma anche come contenuti, potrebbe essere veramente rivoluzionaria, con un salto di crescita importante verso una maggiore civiltà e benessere per tutti. Le donne potrebbero esprimere scelte e priorità completamente diverse da quelle portate avanti dagli uomini, in termini di Welfare, di sanità, di istruzione. I paesi del Nord, con il loro sistema del Welfare e il forte ruolo delle donne nell’economia e nella politica ce lo dimostrano
Esistono donne economiste di ‘’peso’’? Perchè se ne parla poco o si fanno parlare poco?
Sì, ne esistono, eccome! Scrivono e pubblicano studi molto interessanti, oltre a cominciare ad assumere ruoli sempre più importanti.
Il problema è capire cosa significa “di peso”.
Alcune stanno facendo carriere di “peso” tradizionali, questo è l’anno di Christine Lagarde al FMI e di Janet Yellen alla FED.
Alcune connazionali si stanno distinguendo all’estero (pensiamo una per tutte a Lucrezia Reichlin, Professoressa alla London Business School di Londra), mentre in Italia si stanno creando gruppi di economiste che cercano di proporre un’economia diversa, o almeno una lettura differente dei trend economici. La Banca d’Italia pubblica report e analisi in materia grazie alle economiste del suo Servizio Studi, mentre il sito www.ingenere.it pubblica i contributi di numerose accademiche.
Il problema è la possibilità per le economiste di avere la libertà di percorrere sentieri di studio alternativi e di reale cambiamento, che spesso sono penalizzanti per i meccanismi di carriera. Questi infatti troppo spesso riconoscono il “peso” e il “prestigio” a chi non si discosta troppo dall’ortodossia e dal pensiero dominante. Anche in questo modo si impedisce però il cambiamento. Direi però che questo aspetto è un problema comune anche agli economisti uomini, per quanto le donne rimangono sempre più penalizzate e discriminate.
Le difficoltà di far conoscere il contributo delle economiste sono sempre connesse con l’accesso ai media: in rete c’è molto materiale, ma certo l’accessibilità al largo pubblico è un’altra cosa. Con il blog www.ladynomics.it stiamo cercando di fare un’opera di divulgazione, ma rimane sempre un’esperienza dedicata ad un pubblico interessato alla materia. Il pubblico femminile generalista deve ancora maturare una maggiore consapevolezza su tali tematiche.
Cosa cambierebbe se fossero le donne a fare i DPF?
Se li potessero fare senza troppi compromessi e cooptazioni, farebbero grandi cose!!
Di recente in Inghilterra, dove il valore dell’economia di genere è già particolarmente sentito, il Women’s Budget Group ha presentato il Piano F, una controfinanziaria al femminile, che ci illustra chiaramente come potrebbe essere un’economia sensibile ai valori femminili. Ad esempio, tra le numerose proposte, vengono ipotizzate meno spese per il militare e un forte reinvestimento sulle persone, sotto ogni punto di vista: sull’istruzione, la salute, il lavoro, il welfare.
Queste scelte favorirebbero non solo le donne, ma tutta la comunità, e avrebbero un forte risultato anche in termini economici: lavoratrici e lavoratori ben istruiti, curati e assistiti nei loro bisogni di cura hanno una maggiore produttività e possibilità di valorizzare il proprio potenziale. Sono quindi in grado di contribuire maggiormente all’economia e alle risorse pubbliche.
Il lavoro femminile è a rischio in un momento di crisi?
Il recente rapporto annuale dell’Istat (http://www.istat.it/it/archivio/159350) e un bell’articolo di Chiara Saraceno (http://www.repubblica.it/economia/2015/05/21/news/crisi_se_la_donna_tira_la_carretta-114924328/) hanno spiegato chiaramente che la crisi ha ridotto il gap di genere tra donne e uomini nel lavoro ma purtroppo con un effetto al ribasso. Più uomini che donne hanno perso il lavoro, mentre molte donne, di fronte alle difficoltà economiche familiari, si sono rimboccate le maniche e si sono proposte con maggiore determinazione, ricavando qualche posto di lavoro in più ma sempre scarsamente qualificato e poco pagato. Una magra consolazione che, anche se ci lascia ipotizzare una maggiore consapevolezza delle donne nel rendersi economicamente autonome, comunque non colma il gap e non risolve i problemi storici del lavoro femminile in Italia: differenziali salariali, pochissimi servizi di conciliazione, scarsa valorizzazione del contributo delle donne, discriminazioni, difficoltà enormi nei percorsi di carriera.
Le donne rimangono lavoratori con un potere negoziale molto inferiore a quello degli uomini, e, anche se hanno saputo reagire meglio nei tempi di crisi, la strada per la parità è ancora lunga e certo le dinamiche discriminatorie, essendo considerate una forza lavoro “debole”, le colpiscono in misura superiore.
Tutto questo si traduce certamente in una forte fatica e difficoltà per il lavoro delle donne in questi tempi di crisi.
Un lavoro femminile poco remunerato e valorizzato produce anche ripercussioni importanti sulle famiglie, penalizzate da un reddito inferiore, soprattutto se sono famiglie monoparentali. Negative sono anche le ricadute sul sistema: meno donne che lavorano o con stipendi più bassi e con qualifiche demansionate significa anche meno tasse pagate, meno contributi, minore produttività, spreco di talenti e minore produttività per il sistema.
La visione dell’economia di genere, anche nella riflessione sul lavoro femminile, è quindi importante perché mira a far emergere i vantaggi economici di cui tutto il sistema potrebbe avvantaggiarsi da un maggiore investimento nella parità a livello sociale, economico e pubblico.