Chiara Montanari , unica donna della spedizione in Antartide parla della sua esperienza.
da tipitosti.it
“Come ci si muove a –50° centigradi respirando ghiaccio, mentre il sole che attraversa il buco di ozono ti brucia la pelle? Che colore avrà il cielo al di sotto del 60° parallelo? Ce la farò? In quel primo viaggio dentro di me si consumava una lotta contro l’incapacità di immaginare dove sarei finita”.
E’ così che Chiara Montanari descrive il suo primo viaggio per l’Antartide, grande quasi due volte l’Australia.
Pisana, classe ’74, di quel posto, è diventata une habituée. La prima volta ci è andata nel 2003. “All’epoca – racconta nel suo libro Cronache dai ghiacci, 90 giorni in Antartide (Mondadori) – ero l’unico ingegnere donna della struttura. In questo ambiente mi sono fatta le ossa. E da allora sono tornata altre volte, quattro in tutto, ma in ruoli molto diversi”.
Chiara è un project manager, esperta di leadership e team building in ambienti estremi. Laureata in Ingegneria civile presso l’Università di Pisa, ha un master in management, è stata la prima italiana a capo di una spedizione in Antartide. Ha lavorato sia n Italia sia all’estero in progetti di sviluppo dell’innovazione in vari ambiti, dall’efficienza energetica al broadcasting digitale.
E’ stata ricercatrice al Politecnico di Milano dove, attualmente, si occupa di gestione e sinergia università–impresa in area modellistica matematica. Collabora anche con l’Università di Bergamo.
Ma l’esperienza che racconta con orgoglio è la spedizione di due anni fa. Allora è tornata alla Concordia come responsabile della logistica e ha trascorso i tre mesi dell’estate australe, quando il sole non tramonta mai.
Concordia è la base di ricerca italo francese situata sull’altopiano antartico a 3300 metri di altitudine e a 1200 chilometri dalla costa. Sono 3270 metri di stratificazioni di ghiaccio, formate nell’arco di 800 mila anni.
Si tratta di un luogo isolato da tutto, un ambiente ostile, dove le condizioni climatiche impediscono qualsiasi tipo di vita. Ricercatori, biologi, climatologi ci vanno per studiare lo stato dei ghiacci e del pianeta. In quei tre mesi Chiara ha tenuto un diario che è diventato, appunto, un libro, in cui descrive un’esistenza in condizioni davvero estreme. Ricordiamo che lì l’approvvigionamento di viveri, materiale, carburante dipende dall’arrivo del convoglio via terra, che in Antartide nulla è più imprevedibile del meteo e che l’attesa può diventare snervante. Non solo. Nella base non ci si può isolare, né allontanare e questo crea disagi nelle relazioni tra gli abitanti della base che l’ultima volta erano sessantacinque, di cui sei donne. Poi c’è un’elettricità statica notevole per cui ogni volta che si tocca un oggetto di metallo, si prende la scossa.
Ma, come scopriremo da questa intervista, Chiara è una tipa molto tosta. Tante volte ha sentito nostalgia per la famiglia, ma non si è lasciata scoraggiare. E’ andata avanti e ha lasciato quel posto, “capitato – racconta – per caso nella sua vita”, solo dopo aver portato a termine le sue missioni.
Hai detto che l’Antartide ti è capitato per caso nella tua vita. Ma come?
Sì, per la mia tesi di laurea avevo progettato un sistema di riscaldamento che fosse nello stesso tempo in grado di ridurre l’impatto ambientale e migliorare le condizioni abitative. Ho simulato il caso di una base polare, il progetto è piaciuto e hanno deciso di realizzarlo”.
E poi?
Visto che amo le sfide e adoro viaggiare, la passione per l’Antartide è arrivata in modo del tutto naturale. Sommando le spedizioni, sono rimasta più di un anno della mia vita. Ogni missione dura circa tre mesi, da novembre a inizio febbraio, il periodo in cui il sole non tramonta mai.
Cosa hai portato con te?
La prima volta ho portato soprattutto molta incoscienza, oltre alla dotazione polare, naturalmente, che già di per sé è un bel bagaglio: tute fatte di molti strati e attrezzature speciali, perché, per quanto tu abbia studiato, abbia letto i diari delle varie spedizioni, da quella dell’Endurance di Shackleton alla traversata di Messner, e per quanto tu sia stata preparata da quello che ti hanno raccontato i colleghi, è davvero difficile immaginarsi cosa sia l’Antartide.
Cos’è?
E’ come vivere su un altro pianeta e il primo impatto ti cambia per sempre. Di sicuro è stata una delle esperienze più toste della mia vita, quella che non posso paragonare a nessun’altra.
Perché?
E’ un’esperienza complessa: paesaggi extraterrestri, contatto con una natura rimasta allo stato primordiale. E’, soprattutto, un’occasione di introspezione difficile da ripetere in un altro luogo della terra.
Qual è stata la difficoltà più grande in queste missioni?
Le sfide che si presentano in ogni spedizione sono moltissime, forse la più grande è stata imparare ad abitare l’incertezza con lucidità. L’Antartide, come tutti gli ambienti estremi, ti mette sempre di fronte a situazioni imprevedibili e potenzialmente molto rischiose. Viverci significa imparare a gestire l’incertezza, prestare la massima attenzione al cambiamento, sapere cogliere l’attimo e le poche opportunità che ti si presentano, imparare ad agire con determinazione anche nelle emergenze. Stare per tre mesi in un posto come quello fa pensare a quello che fa un musicista di jazz. Sulla base dello swing di un pezzo, ci aggiunge le sue note, personalizzando il brano.
Ci fai un esempio concreto di come hai gestito l’incertezza?
Quando ero a capo della spedizione, una volta mi sono trovata di fronte al recupero di alcuni ricercatori che erano rimasti con il mezzo in panne lontano dalla base. La temperatura in estate è intorno ai – 50°C e la capacità di resistere senza riscaldamento all’esterno non supera una giornata: la morte per assideramento è, ovvio, uno dei principali pericoli. Un’altra volta ho dovuto affrontare un’evacuazione di emergenza di una persona che necessitava di cure mediche. La nostra base ha un medico e una piccola sala operatoria, ma l’ospedale civile più vicino si trova in Nuova Zelanda. La distanza è di quasi quattro mila chilometri. Era un po’ come se fossimo isolati in un palazzo di Milano e dovessimo coordinare il trasporto aereo di un paziente verso Dakar. Solo che in Antartide bisogna aggiungere la difficoltà creata dalle condizioni meteorologiche, che sono estreme. Comunque, forse l’emergenza più lunga è stata quella dello scorso anno.
Cosa è successo?
Quella volta ero a capo della logistica, cioè mi dovevo occupare del funzionamento tecnico della base: è ciò che ci garantisce la sopravvivenza e anche la possibilità di fare attività scientifiche. Per via di una nave russa, rimasta imprigionata dai ghiacci, e dei soccorsi che la nostra nave è stata chiamata a prestare, e per tutta un’altra serie di eventi collegati, siamo rimasti con pochissimo carburante e senza altre possibilità di rifornirci. Nelle situazioni estreme, quando puoi contare solo su te stessa, sulle poche risorse che hai e sul gruppo di persone che hai a disposizione in quel momento, c’è poco da fare. L’unica cosa è mantenere i nervi saldi, la mente lucida e agire direttamente sulla situazione in quel momento.
<continua>