Un bambino, un nome, un’identità geografica e poco più. Di lui, e di quelli come lui, morti o sopravvissuti, resta il dovere di cronaca.
E’ ancora una dolce sera di settembre questa in cui un gruppo di giovani artisti di strada rimandano una languida musica di Bob Marley, anch’essa dolce e malinconica, che riempie lo spazio sereno di un parco. Ed è’ ancor una dolce sera di fine estate quella in cui i social network ci e si rimandano l’immagine di un bambino privo di vita, un corpicino lambito dalla risacca, su un spiaggia per turisti.
E’ la stessa sera nella quale le coscienze, anche le più egoiste, dovrebbero sentirsi a lutto.
Infine una sera come tante se non fosse per quell’immagine.
Un bambino, un nome, un’identità geografica e poco più. Di lui, e di quelli come lui, morti o sopravvissuti, resta il dovere di cronaca.
Ed è un incerto giorno settembrino quello successivo. In cui si apprende che il padre del bimbo, nella cui fuga dal proprio suolo e in cerca di avvenire migliore per sé e la sua famiglia, ha perso quasi tutto, certi i suoi due figli. Che, spiega, gli sono scivolati dalle mani mentre cercava di tenerli ancorati a sé. Apprendiamo ancora che rifarà un uguale viaggio all’indietro; tornerà nel suo Paese per seppellirli e restituirli a quella crudele terra del loro destino.
In questi ultimi giorni, in queste ore, apprendiamo e si confermano, ancora e purtroppo, cose orribili già sussurrate o denunciate di violenze contro tanti altri bambini in fuga e di quelli bruciati, uccisi, venduti, torturati e violentati non solo nel corpo.
Era un Agosto di vacanza quello già passato e sovrastato da questo inizio settembre 2015, che ha visto milioni di turisti sparsi nel mondo. Mentre quelli fuggivano, soffrivano e morivano, siamo ritornati nella storia odierna. In questo settembre, indurito dall’abitudine alla cronaca e al male che essa racconta, non possiamo ignorare ciò che circonda le nostre vite serene, approssimative, difficili ma vissute da persone libere. In questi ultimi giorni si sono alzate molte voci indignate, un moto di pietà ha attraversato il mondo della politica, dei governi e dei media.
Ma quante finzioni. Qualcuno ha parlato di falso pietismo, di morbosità. Ed è vero questo e il suo contrario. Convivono in noi anche una sincera indignazione della coscienza, la consapevolezza della propria impotenza e del significato d’ingiustizia.
Che un giornalista molto qualificato di radio Radicale, Massimo Bordin, ha sintetizzato recentemente in suo articolo dove sostiene che “ La polemica sulla foto di quel povero bambino morto e deposto a riva dal mare a me pare inutile e stupida” e commenta con parole suggestive “ La foto nella sua composta, geometrica, iperrealista tragicità è bellissima”.
La foto, che è drammaticamente bella appunto, parla da sola. Non si può e non si deve morire così. Non si potrebbe e non si dovrebbe. Quel corpicino, restituito dal mare come una conchiglia, va ben oltre e sempre Bordin, coglie bene il nocciolo “ Un problema però c’è e non riguarda la foto in sé ma la storia che racconta nel suo epilogo. Quel bambino era curdo, scappava da una città siriana di confine attaccata da barbari, armati da qualche sceicco infido, e difesa da pochi e coraggiosi combattenti. Altri bambini stanno ancora lì in attesa di scappare con la probabilità di morire per strada, che è sempre meglio che essere sgozzati dai barbari del cosiddetto califfo. Quanto deve durare ancora tutto questo prima che qualcuno si decida a usare il massimo della forza e dunque, certo, della violenza per spazzare via i tagliagole? Non risolverà tutti i problemi, ma è comunque preliminarmente necessario e indifferibile. Ecco, a me pare che questa sia l’unica lezione possibile da trarre da quella foto. Solo che probabilmente mi varrà l’epiteto di guerrafondaio da uno dei due giornali che giustamente l’ha messa in prima pagina. Non fa niente.”
Noi altri, lettrici, lettori informati dei fatti, scandalizzati ma a prima vista impotenti, forse possiamo agire in altri modi. Facendo sentire la nostra voce non solo nei social network, clikkando un incongruo mi piace. Possiamo usare le parole, dette o scritte, fare corpo, manifestare in ogni sede a noi consona il nostro dissenso alle politiche inette, italiane, europee o transnazionali che siano. Non possono trovare accoglienza in noi le scelte di marchiare i profughi, di abbandonarli al loro destino, di considerarli tutti probabili assassini ed attentatori dei nostri privilegi. Il mondo sta cambiano ed in parte cambia anche a causa nostra. Intervenire è un dovere di solidarietà umana.
La questione è complessa e non possiamo parlare solo con la pancia, ci vuole la ragione certo, ma quella dei giusti altrimenti che ragione è?
Lasciamo dunque che quel piccolo torni a riposare nella terra da cui è fuggito insieme alla speranza e ad un ultimo soffio di vita.