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    Home»Pari opportunità»Parità di genere»Pubblicità e stereotipi
    Parità di genere

    Pubblicità e stereotipi

    Roberta Colella di SalvoBy Roberta Colella di Salvo13/10/2015Updated:09/12/2015Nessun commento5 Mins Read
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    Come vengono rappresentate le donne, nei media, nel 2015?

     

    Essere donna, oggi, nonostante i numerosi sforzi e le numerose battaglie degli anni settanta, ha assunto un significato diverso da quello che aveva allora. Le donne si sono fatte porta voci di storie nuove, l’identità, sia maschile che femminile, è mutata, il mondo anche. Ma ci sono certe convinzioni che continuano a perdurare, certi luoghi comuni radicati nella società da talmente tanto tempo, che sembra tutt’ora impossibile sopprimere.
    La società che ci viene raccontata attraverso i media è raccontata, ancora oggi, da un punto di vista maschile, impossibile negarlo. Quanto tempo ci ha messo la donna per capire che le sue aspirazioni non erano quelle che la società le aveva imposto? Quante generazioni di donne ci sono volute per gridare al mondo che l’ambizione più grande non era costruirsi una famiglia e educare i figli aspettando il rientro a casa del marito, stanco e nervoso, dopo un’intensa giornata di lavoro? Ma soprattutto, dopo che sono state le donne ad averlo capito, ci sono riusciti anche gli uomini?

    Negli anni settanta le femministe consideravano le riviste con contenuti prettamente femminili un’oppressione per le donne proprio a causa della pubblicità, che non faceva che evidenziare determinati difetti fisici o imporre un determinato stile di vita, convincendo le donne che l’uso di determinati prodotti sponsorizzati poteva cambiare il loro aspetto fisico o migliorare la loro qualità della vita, garantendo l’uscita dall’insoddisfazione e un aumento dell’autostima.
    Il problema degli stereotipi di genere nella pubblicità è che questa divisione dei ruoli sociali inizia ad essere inculcata fin dall’infanzia. Le pubblicità destinate al giovane pubblico promuovono tale divisione, pubblicizzando per le bambine prodotti come bambole o accessori che incitino a determinate funzioni domestiche o alla preoccupazione della bellezza esteriore, convincendole fin dalla tenera età che devono arrivare ad essere come le donne attraenti e provocanti che vedono in televisione o nei cartelloni pubblicitari e a vergognarsi nel caso in cui non arrivino ad esserlo. Al contrario, per i bambini, vengono proposti oggetti e giochi che richiamano alla competitività, al dominio e anche ad una certa aggressività, lasciando loro intendere che certi campi appartengano di diritto al sesso maschile, e altri al sesso femminile.
    Sono tante le ricerche che sono state fatte nel corso del secolo passato riguardo a questo tema, e, nella maggior parte dei casi, tali studi hanno mostrato come la donna, in diversi tipi di messaggi mediatici, venga rappresentata in posizioni subalterne – come casalinga, per esempio – lasciando agli uomini ruoli autoritari e di successo. Confermando, così, che la società ritiene la sfera pubblica e il mondo del lavoro territori di appartenenza maschile più che femminile. Un esempio tipico sono le pubblicità che sponsorizzano elettrodomestici o quelle che sponsorizzano prodotti di pulizia per la casa. Per questo tipo di propaganda vengono scelte sempre le donne.

    Uno dei più importanti studi sugli stereotipi di genere nelle pubblicità venne condotto da Alice Courtney e Sarah Lockeretz. Queste due studiose arrivarono alla conclusione che esistevano, nel 1958, 1968 e 1978, quattro stereotipi di donne in otto riviste di interesse generale, ovvero: il posto della donna è in casa; le donne non prendono decisioni importanti né tantomeno fanno cose importanti; le donne non sono indipendenti e hanno bisogno di protezione; gli uomini considerano le donne come oggetti sessuali.
    Questi stereotipi sono veramente scomparsi o il voler rappresentare le donne in importanti cariche di lavoro, oggi, è solo un modo per mascherare ciò che in realtà non è mai cambiato?
    E’ vero, le cose sono diverse, sono stati fatti importanti passi in avanti, grazie soprattutto all’indipendenza economica delle donne, che adesso vengono spesso rappresentate nei media “con i pantaloni”, come importanti e temerarie guerriere in contesti lavorativi in cui prima padroneggiava esclusivamente il sesso maschile; nelle pubblicità vengono affiancati uomini e donne mentre lavorano insieme; i produttori cinematografici vogliono le donne come protagoniste o eroine, lasciandosi alle spalle quelle vecchie credenze unilaterali del passato.

    Quello che non è cambiato all’interno della pubblicità però è l’uso inappropriato del corpo femminile, che viene rappresentato da una bassa percentuale di donne che non corrisponde alla donna reale. Con chi si possono identificare le donne? Dove sono le immagini di donne “reali”? Perché non appaiono mai donne grasse nelle pubblicità? La parola grassa spaventa ancora e la cultura occidentale non si sente pronta per usarla né tantomeno per rappresentarla. L’aumento eccessivo del peso viene ancora attribuito a qualcosa di negativo, a qualcosa di cui vergognarsi. Per loro non c’è spazio. Così come non c’è spazio nella pubblicità per le donne con disabilità. Per le donne belle, magre e sensuali si, quello sempre, però bisogna ricordarsi che se ricoprono importanti cariche di lavoro non ci sono sicuramente arrivate grazie ai loro meriti accademici o professionali ma grazie esclusivamente al loro corpo.
    Essere donna, nel 2015, significa ancora appartenere ad un determinato stereotipo costruito dal punto di vista maschile. I nuovi ruoli interpretati dalle donne, nei media e nella pubblicità, altro non sono che una forma di riscatto dovuta all’imposizione che le donne hanno dovuto subire nel passato, interpretando un ruolo che loro non avevano scelto.
    Almeno adesso siamo libere di scegliere che ruolo interpretare all’interno di questa società maschilista, che al mondo piaccia o no.

    Roberta Colella,  laureata in Scienze della Formazione Primaria nel 2013.  Nel settembre dello stesso anno mi sono iscritta ad una specialistica in Comunicazione e Giornalismo presso l’Università di Coimbra, in Portogallo. Parla portoghese e inglese ed è  un’appassionata di fotografia.

    stereotipi
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    Roberta Colella di Salvo

    Roberta Colella, Laureata in Scienze della Formazione Primaria, presso l’Università degli Studi di Cagliari nel 2013, a 23 anni decide di cambiare “direzione” e nell’Ottobre del 2015 consegue la laurea specialistica in Comunicazione e Giornalismo, presso l’Universidade de Coimbra, in Portogallo, con una tesi sugli stereotipi di genere nelle riviste di Moda e nei media. Appassionata di fotografia e di moda, ha lavorato presso la redazione di Vogue a Lisbona.

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