L’Espresso della scorsa settimana ha pubblicato un’inchiesta, titolata “Le donne hanno perso”, centrata proprio sul femminismo, ma con un titolo che contiene già un giudizio finale.
Forse sarebbe stato meglio usare una domanda, piuttosto che affermare. Anche perché se ci guardiamo attorno di femminismo ce n’è, dispiace che buona parte sia invisibile dai media e dai riflettori mainstream. È arrivato il 14 ottobre un articolo sullo stesso L’Espresso, che cerca di integrare l’inchiesta sul numero 41/2015.
Ma appunto, sarebbe stato meglio un segno di interpunzione che ci aiutasse a interrogarci tutte/i, al di là del solito scontro tra blocchi ha vinto/ha perso, chi ha ragione/chi ha torto che annullano ogni via di mezzo, ogni sfumatura e prospettiva differente. Il femminismo non è una partita di calcio, che ha una durata limitata e sancisce un risultato. Che senso ha ragionare in questi termini se siamo “in cammino”?
Per questo recupero dal saggio La virtù della resistenza di Carol Gilligan, la domanda: noi donne dove siamo ora? Il tema è “le vite delle donne”. Forse occorre centrare innanzitutto la nostra collocazione, oggi, nella sua molteplicità.
“Le vite delle donne sono un segnale luminoso – o come direbbe Virginia Woolf, un faro – che illumina il cammino che noi, come esseri umani, abbiamo percorso e anche la strada a venire. Le voci delle donne offrono una risonanza che potrebbe aiutarci a non smarrire la via”.
Ma quali sono queste voci, che posizioni sottolineano, che cosa sappiamo di loro? Interroghiamoci se con il passare degli anni ciò che hanno detto ha lo stesso significato o se esso è stato stravolto per essere riadattato e consumato ai nostri giorni. Anche perché oggi di NOI ci sono svariate sfumature.
La grande conquista è stata affermare e portare al riconoscimento che i diritti delle donne sono diritti umani, che deriva dalla straordinaria scoperta che le donne di fatto sono esseri umani. Ogni tanto va ribadito, perché ultimamente veniamo associate a cose, merci e via discorrendo.
E si riparte sempre da zero. Ogni intuizione e disvelamento sembrano archiviabili, e così il femminismo si azzera a ogni ondata, suscettibile delle onde che provengono da altri ambiti (la politica istituzionale, l’economia, il welfare).
Ariel Levy parla di “distorsioni della memoria storica: è come se il femminismo fosse affetto da una sorta di sindrome della falsa memoria”. Un “disordine della memoria culturale”, che porta a modificare il senso degli slogan storici (il corpo è mio e me lo gestisco io, il senso della scelta personale, l’affermarsi di un’etica personalistica, tutto il capovolgimento su “vittime” e carnefici” ecc.), delle parole chiave (autodeterminazione per esempio), degli stessi scritti di quegli anni. Alcune hanno cancellato persino il differenziale di potere uomo-donna, pur di giustificare alcune posizioni. Un esempio è dato dal fatto che per esempio ci siamo forse dimenticate che la politica dell’uguaglianza fosse incompatibile con le strutture della famiglia tradizionale (che poi è quella patriarcale). L’obiettivo della piena cittadinanza per le donne era subordinato a una trasformazione radicale della società, a partire per esempio dal tema della cura o dell’accudimento. Tradizione e femminismo potevano e possono davvero conciliarsi?
“Se il padre lavora e la madre lavora, nessuno rimane a guardare i figli. O il governo riconosce la situazione e provvede all’assistenza all’infanzia (come avviene in molti paesi europei) o la cura dei bambini diventa un lusso alla portata dei ricchi e un problema per tutti gli altri.”
Nancy Fraser (citata a pag. 23 de L’Espresso, 41/2015), professoressa di filosofia alla New School di New York, sottolinea che le donne che celebrano le proprie carriere (come Sheryl Sandberg di Facebook) “dimenticano chi c’è dietro: schiere di lavoratrici, soprattutto straniere, precarie e sottopagate, cui sono stati “appaltati” i compiti di cura che loro non hanno tempo di seguire”.
La nostra percezione dei problemi ha una forte connotazione classista, la sensibilità cambia e anche notevolmente. Fraser sottolinea che “finché non spezzeremo l’idea che c’è un lavoro pagato bene, considerato produttivo, e un altro tipo di lavoro di “riproduzione sociale” – l’educazione, la cura, lo sviluppo umano, la stessa procreazione – che viene invece pagato poco o nulla, dentro cui sono arruolate in massima parte le donne, non avremo parità”. Solo una parità di facciata, in cui poche traggono benefici e tante subiscono un sostanziale inganno.
Il fatto stesso che la società capitalistica tenda a far coincidere il valore e la stessa persona con il lavoro che svolge, ci priva della dimensione più autentica del nostro essere degli individui che si esplicano al di là della propria attività di produzione o di ri-produzione.
Possiamo ben dire che la nostra memoria distorta ha causato non pochi problemi.
Inoltre, sostenendo che “una donna vale l’altra”, purché fossimo rappresentate, ci ha azzoppate, perché ha prevalso il compromesso e le posizioni radicali e innovative sono state accantonate. Per cui ci troviamo di fronte anche a un problema enorme di rappresentanza, quale e come si debba definire e realizzare. Gli ultimi dati Istat sul lavoro femminile ci danno la misura di una vera e propria forma di violenza che colpisce tutte le donne, un disastro i cui effetti saranno ben più gravi quando la mia generazione e le successive diventeranno anziane. Dobbiamo riflettere su cosa è stato e dovrà essere il nostro rapporto con il potere e come declinarlo.
Il femminismo sta riemergendo, (con tutti i pericoli dell’essere diventato “di moda”, fashion, ) ma ha dei connotati in alcuni casi discutibili. Sta tornando in quanto strumento di una restaurazione silenziosa di modelli e strutture di ragionamento e di pratiche che pensavamo ingenuamente di aver superato. Il nostro stare nel mondo ha assunto le caratteristiche dello stare nel mondo degli uomini, e alcune di noi hanno ceduto ad esso, perché implica una semplice accettazione di qualcosa di già pronto all’uso, per poter avere spazio. Il congelamento degli ovuli come benefit concesso da alcune multinazionali statunitensi non è altro che un tentativo di portare le donne ad adattarsi a un modus vivendi maschile, di cui si abbraccia (magari senza comprenderne bene le differenze) anche la prassi genitoriale. Anche alcune femministe, si sono avvicinate a questo approccio. Si è dismessa la via autonoma, di trovare modalità tutte nostre, che cambiassero veramente l’assetto delle relazioni e dell’agire nel mondo. E si è tornate in un privato privatissimo. Questo per tutte le generazioni. Lo è ancor di più per le ultime precarissime e affannate. Chiaramente il risultato di un “sapere” e di un “sentire” femminista (purché non sia neoliberal) potrebbe fare tanto bene in molti ambiti, dalla lotta alla violenza maschile contro le donne, alle soluzioni in ambito lavorativo, dalle politiche per contrastare la disoccupazione o per favorire la conciliazione, alle battaglie per ottenere nuovi e/o migliori servizi. Ma dobbiamo anche contemplare l’idea che c’è di mezzo il denaro, i finanziamenti, i bandi che rendono “appetitose” la gestione di queste attività destinate alle donne. C’è di mezzo il potere e la sua gestione o co-gestione. Tutto diventa acquistabile, perché siamo immerse in una società dominata da un sistema di scambio economico che crea disparità. Il sistema si regge solo se ci sono persone “sacrificabili”, situazioni che contemplino l’eccezione di diritti, se non c’è eguaglianza, resta solo l’illusione di pari diritti, diritti come ologrammi. Su queste contraddizioni dovremmo lavorare. Abbandoniamo questi giochi utilitaristici.
Siamo sempre più abituate a vedercela per conto nostro. L’isolamento porta a non riuscire a difendere i diritti, le conquiste, si attua una fragilità anche di chi nel femminismo investe notevoli energie e speranze. Dopo tutte queste brutte esperienze di “tradimenti” e fraintendimenti, sottrazioni, strumentalizzazioni, abbiamo sempre più paura di fidarci dell’altra, della compagna di lotte. Quanto meno dovremmo riuscire a trovare una formula per fare rete con coloro che sentiamo vicine. Per non fare il gioco di chi ci vuole frammentate, come ho più volte sostenuto. Con il rischio di diventare “cose”, oggetti, suppellettili da spostare all’occorrenza e da usare in ogni senso. Con il rischio di sentirsi anche contente di questo status. Pedine utili o meno utili di un meccanismo perverso di potere.
Forse l’errore è stato concentrarci sulla “scelta”, come fattore decisivo e guida di un femminismo non collettivo, ma individuale. La perdita della dimensione collettiva dei problemi, il guardare solo alla propria esperienza individuale e cercare soluzioni e scelte che permettessero la propria emancipazione e il proprio benessere, ha reso più complicato incidere sugli stessi problemi in maniera organica, coordinata e strutturata, ultimamente questo si è concretizzato in una difficoltà di “manifestarci” in piazza con i numeri del passato. Abbiamo scaricato le responsabilità collettive sulla singola donna e sulle sue scelte “Se compi la scelta sbagliata, i risultati negativi ricadranno su di te”. Per cui tristemente, i macro-problemi, risultano parcellizzati, spingendo le donne a chiudersi ancor più in quel privato privatissimo di cui parlavo. In alcuni casi la rimozione dalle riflessioni le ricadute di censo e classe, delle differenze legate alle disponibilità economiche, sulla condizione della donna, facendo un gran torto a tutte coloro, la maggior parte, le cui scelte non potevano avvenire in modo paritario e che si sono viste anche colpevolizzare per non essere riuscite a emanciparsi. C’è anche chi tra noi pensa di esercitare potere sull’altra in virtù del potere economico o di status. Il nostro sentire femminista è chiaramente contaminato da molteplici fattori. Ma certamente non si può dire che sia agonizzante, semplicemente non c’è un’unica strada, di stare tra le donne, per le donne. C’è chi ha saputo dare un interessante scenario della poliedricità dei femminismi, penso a “Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio” di Barbara Bonomi Romagnoli, con tanti esempi di prassi e metodi diversi. Dovremmo raccontare questo tipo di esperienze e non limitarci a semplificare.
C’è molto fumo e polvere, alcune speculazioni e interessi non propriamente puri, ma ci sono anche tanti diamanti grezzi da valorizzare, che fanno ben sperare per il futuro. Ci sono blogger come Il Ricciocorno schiattoso che cercano di affrontare argomenti complessi e delicati, cercando di far chiarezza, nonostante gli attacchi esterni. Da alcune esperienze territoriali positive può e dovrebbe partire un lavoro più allargato, capace di ampliare il terreno dell’azione, perché alcune lotte devono avere un respiro nazionale per poter incidere sui decisori politici, devono essere capillari e sistematiche, evidenti e multidimensionali. Concentriamoci sulle cose veramente importanti, non perdiamoci in azioni che ci fanno solo sprecare energie preziose. Torniamo ad ascoltarci. Tutte. Non creiamo discriminazioni nelle discriminazioni, non sommiamo nuova violenza a quella che già c’è e sperimentiamo. Quando si giunge ad adoperare la violenza solitamente si vuole scoraggiare, fermare la persona che la subisce, forse perché le sue idee, scomode per chi esercita la violenza, stanno andando nella giusta direzione, rischiano di cambiare veramente prassi e logiche.
2 commenti
io la scelta non la butterei via, per me anche l’individualità resta importante ma per il resto condivido
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