La città cambia volto, ma non dovrebbe dimenticare le donne che hanno contribuito alla sua dimensione europea.
Una città cambia volto per volere dei potenti: ed è la città dell’esibizione. Ma una città cambia volto – e più in profondità – ascoltando la voce del bisogno: questi mutamenti avvengono, sopra tutto, quando vi sono donne che riescono a farsi ascoltare dal potere.
Fra la metà dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento sono state proprio le donne a dare a Milano una fisionomia diversa: più umana e funzionale. Parleremo di tre di loro, appartenenti a tre generazioni diverse, ma con una comune convinzione: al popolo va riconosciuto quel diritto di cittadinanza che dovrebbe accomunare tutti gli appartenenti al genere umano. Il socialismo, prima ancora che nelle fabbriche milanesi, diventa azione che trasforma nei loro salotti illuminati e nelle strade in cui esse si muovono.
Autunno 1849: la prima guerra d’indipendenza è fallita, gli Austriaci sono di nuovo al potere e Laura Solera Mantegazza (Milano 1813 – Cannero Riviera. 1873) torna a Milano senza marito, coi figli, e prende casa in Via Garibaldi,73. I mesi eroici della ribellione sono passati e la vita sembra vuota, quando la sua attenzione è attirata dalla ruota del Convento di Santa Caterina, di fronte all’Ospedale Maggiore: non passa giorno che un piccolo non venga abbandonato dalle madri operaie in fabbrica o, soltanto, non in grado di nutrirli e allevarli. Laura pensa di adottare alcuni di questi bambini, quando Giuseppe Sacchi, studioso interessato già da molti anni ai problemi pedagogici e del pauperismo, le viene in soccorso: aveva sentito parlare di un asilo per lattanti, aperto a Parigi nel 1845 da alcune donne protestanti di indirizzo sansimoniano. A Laura l’idea piace e inizia a cercare aiuti per realizzare l’impresa: la chiesa è ostile a questo “agglomerato di donne” che allattano e sconsiglia la Municipalità dal parteciparvi. Laura si rivolge egualmente alle autorità austriache per ottenere la necessaria autorizzazione: il 17 giugno 1850 può essere inaugurato il primo Pio Ricovero per bambini lattanti e slattati. Vengono utilizzati alcuni locali al piano terreno della stessa casa di Laura, con l’ingresso da via Mantegazza 7.
Al ricovero sono ammessi bambini da 15 giorni a due anni e mezzo: c’è una veranda sul giardino, due camerate con un grande letto e una serie di culle, cucina e bagni. L’iniziativa prevede anche elargizioni per le madri che lavoravano a domicilio e quindi possono tenere i bambini con sé, ma limitatamente alle famiglie che abitano nelle parrocchie di San Simpliciano, San Marco e del Carmine. Il contatto diretto con tante madri povere del quartiere spinge Laura ad interessarsi anche della loro formazione e ben presto vengono organizzati negli stessi locali dei corsi di alfabetizzazione e di taglio e cucito.
Il grande successo dell’iniziativa spinge Laura ad aprire l’anno dopo (1851) un secondo asilo a Porta Ticinese (prima in borgo S. Croce, poi in Molino delle Armi e dal 1880 in via Sambuco): in totale i bambini assistiti sono 200. I fondi provengono da donatori “perseguitati” con instancabile energia da Laura, che inventa per l’occasione la Fiera di Natale, un’asta di oggetti donati alla quale vengono invitate ogni anno le principali famiglie milanesi (la fiera continua tutt’oggi nella parrocchia di sant’Ambrogio e in altri luoghi milanesi). Nella sua casa di corso Garibaldi 73 il municipio ha fatto murare una lapide di marmo con la scritta: «In questa casa abitò molti anni e istituì il primo ricovero dei bambini lattanti Laura Solera Mantegazza».
Di una generazione successiva, ma legata alla Mantegazza da devozione filiale è Alessandrina Ravizza (Gatčina 1846 – Milano 1915), che continua in modo instancabile la sua opera.
L’inverno del 1879 è uno dei più freddi e pungenti nella Milano di fine Ottocento e a preoccupare la Ravizza è la sopravvivenza degli indigenti: decide così di fondare la Cucina per ammalati poveri. Avvia l’impresa con venti lire soltanto in tasca e senza nemmeno il beneplacito del Comune. La Cucina, riconosciuta Ente morale con Decreto reale solo nel 1895, si trova «in uno squallido stanzone di via Anfiteatro», al civico 16, poco distante da via Garibaldi, una delle zone più malfamate della città. la «via del Guast», vecchio nome della via Anfiteatro, tristemente nota agli annali polizieschi. «Una quarantina di case sopravvissute alla grande demolizione: luride, vecchie, screpolate»: bugigattoli, bottegacce e negozi equivoci, di cui è inutile «che si ripeta la sucidezza delle muraglie, la sporcizia dei sacconi, il tanfo morboso, i ragni […], gli argentei pidocchi dalla coda nera che percorrevano in compagnia delle cimici i nauseabondi giacigli», sono il rifugio ideale dei lôcch (ladri), delle prostitute e dei miserabili rassegnati alla disperazione. Oltre al dispensario di via Anfiteatro, Alessandrina ne apre un secondo in vicolo delle Corde, nei pressi di Porta Ticinese, zona altrettanto degradata: «Nel quartiere di Porta Garibaldi e in quello di Porta Ticinese vi sono le locande peggiori. Non può credere quanto siano squallide chi non le abbia vedute».
La Cucina ha da subito grande successo, viene distribuita un’ingente quantità di razioni di cibo e moltissimi ragazzi vengonoo ricondotti a una vita onesta. Si aprono quindi altre succursali in diversi punti della città: via Tortona, via Volta e piazza Vetra. Nemmeno una decina d’anni dopo la fondazione, nel 1887, a completamento dell’opera, alla Cucina per ammalati vengonoo collegati un Ambulatorio medico e una sala per convalescenti, riservata a coloro che, dimessi anzitempo dall’Ospedale per la mancanza di posti letto, necessitano di continuare le cure. La direzione dell’ambulatorio venne affidata alla «dottora dei poveri», Anna Kuliscioff per l’annata 1888-89: ma la tubercolosi contratta in prigione costringe Anna ad abbandonare presto l’Ospedale.
Ma la miseria peggiore è quella dei più deboli violentati, sfruttati e gettati via come stracci vecchi: in via Pace, 9 c’è un sifilocomio, dove vengono ricoverate le donne – alcune sono ancora bambine – violentate o costrette alla prostituzione, spesso con una creatura in braccio: creature abbandonate a se stesse, senza alcuna speranza di vita. A fronte di questa situazione, il Comitato milanese contro la tratta delle bianche, che vede tra i sui membri anche Ersilia Majno, decide di nominare due visitatrici presso l’Ospedale di via Lanzone: è così che Alessandrina, insieme all’amica Bambina Venegoni, inizia una serie di visite che, oltre ad suscitare grande scandalo negli ambienti borghesi, si rivelano difficili a causa della reazione delle ricoverate: «Sono accolte a zoccolate dalle degenti, esasperate dalla lunga segregazione, inferocite contro le due Signore, che portano tra quelle miserie la visione della libertà, del mondo lussuoso, felice, verso cui si sentono attratte».
Tuttavia, anziché esserne scoraggiata, la Ravizza decide di aprire, in via Lanzone 15, una scuola laboratorio, dotata di biblioteca e sala di lettura, annessa al reparto dell’Ospedale, allo scopo di aiutare quelle giovani ragazze a trovare un’alternativa alla prostituzione, attraverso l’apprendimento di un mestiere. La sede originaria è l’antica chiesa sconsacrata annessa all’ospedale, in origine appartenente all’ex convento trecentesco di S. Bernardino alle Monache, soppresso dagli ordinamenti di Giuseppe II nel 1782.
I locali in cui le lezioni si svolgono non sono però dei più adatti e lo stesso edificio dell’ospedale si rivela inadeguato a ospitare un reparto clinico. Per questo motivo il Consiglio ospedaliero, con delibera del 6 giugno 1902, autorizza la costruzione del nuovo polo dell’ospedale nell’area di via Pace, acquistata a metà Ottocento. Ultimati i lavori, nel 1908 i comparti dermosifilitici vengono trasferiti nel nuovo complesso «costituito da cinque padiglioni uniti da un corridoio centrale» e «ideato per accogliere tutte le diverse sezioni dei reparti dermatologico e celtico, prevedendo spazi tecnologicamente adatti per la permanenza e la cura dei malati». La Scuola laboratorio, trasferita insieme al resto del reparto nella nuova sede di via Pace 9, ha a disposizione «sale lucenti di sole, profumate di purezza, aperte sul verde del giardino»[1] e abbellite da un ciclo di dipinti raffiguranti le quattro stagioni, tra cui l’allegoria della primavera di Mario Moretti Foggia.
Tra gli spazi che più rappresentano la Ravizza vanno infine ricordati gli edifici della Casa di Lavoro, chiusi tra le vie S. Barnaba, Manfredo Fanti e Pace. La Casa di Lavoro inizia la propria attività il 7 agosto 1907: Alessandrina venne nominata dal Consiglio elettivo direttrice della costituenda Casa e si occupa in prima persona del Laboratorio sociale dei Calzolai nelle cui vicende burrascose è coinvolta sino alla chiusura. In una lettera alla segreteria del dicembre 1906, Alessandrina prefigura un ambiente confortevole e armonioso, che ispiri “serenità d’ambiente, con bei disegni alle pareti e magari qualche pianta”, per rallegrare l’animo dei “tribolati”. Il laboratorio è composto di due grandi sale, in cui ogni operaio ha un tavolo da lavoro e un ripostiglio per gli strumenti, una biblioteca, un refettorio e uno spogliatoio con lavandini e docce.
Ersilia Bronzini Majno (Oleggio 1859 – Milano 1933) come Alessandrina e Anna Kuliscioff ha un salotto in cui si riunisce la borghesia illuminata di Milano. Tra i suoi ospiti c’è anche Luigi Devoto, medico e professore presso l’Università di Pavia, con il quale progetta la Clinica del Lavoro. Segue la Guardia Ostetrica, ospitata nei locali di via Unione 7/a, che dispone di un salone per le conferenze, capace di contenere circa 100 persone, adibito a sala d’aspetto e di un ambulatorio ostetrico vero e proprio. Successivamente, a Milano e in altre parti d’Italia, nascono altre guardie ostetriche “ma questa fra le prime in ordine di tempo, è presa a modello da tutte quelle che sorgono dopo nelle diverse città”.
L’instancabile Ersilia contribuisce, in quegli stessi anni, alla nascita dell’Unione Femminile Nazionale. Sono quattordici persone (undici donne e tre uomini) a firmare nel dicembre 1899 il programma dell’Unione, il cui Comitato fautore è composto Jole Bersellini Bellini, Ada Negri Garlanda, Ersilia Majno Bronzini, Antonietta Pisa Rizzi, Silvia Pojaghi Taccani, Carolina Ponzio, Nina Rignano Sullam, Elly Carus, Irma Melany Scodnik, Nina Ottolenghi Levi, Adele Riva, il pittore Giuseppe Mentessi, Umano e il banchiere Alberto Vonwiller. Nel 1924 si procede ad un ulteriore sviluppo della sede mediante l’aggiunta di un piano sopra al Salone: il risultato è quello di ottenere cinquanta nuovi locali, in parte destinati ad uffici e in parte ad abitazioni, e un grandissimo salone con adiacente un giardinetto pronto ad accogliere, alla domenica, le bambine della Società La Fraterna. Il Teatro si dota di una cabina cinematografica e si allarga il dormitorio pensione con una serie di aule della scuola elementare di via Palermo, cui si aggiungono, negli anni, i locali della scuola femminile dei Bastioni di Porta Nuova (ora in corso di Porta Nuova 32).
Il 14 dicembre 1902 viene costituito l’Asilo Mariuccia, nato da una serie di iniziative a favore dei diritti dell’infanzia, della maternità e del lavoro portate avanti dalla neonata “Unione Femminile Nazionale”. E’ dedicato alla figlioletta di Ersilia, della cui morte ella si fa carico e per la quale proverà sempre un profondo senso di colpa.
Ma non basta: è impellente il problema delle case per le famiglie indigenti. Ersilia si rivolge al marito Lugi, ai vertici della Società Umanitaria che, però, ha mezzi limitati e investe in un progetto per sole 700 famiglie. Nel giro di sei mesi si riesce a individuare una zona edificabile in Porta Macello, nella periferia nord-ovest di Milano, e ci si affida all’architetto Giovanni Broglio il quale, nel febbraio 1905, presenta un modello di quartiere operaio autogestito, basato sul principi della solidarietà, del rispetto per il bene comune, dell’integrazione e dell’elevazione morale e intellettuale dei lavoratori alloggiati. Esso comprende botteghe per lo spaccio delle derrate alimentari, uno o più locali per conferenze e sale lettura, un asilo infantile, una cucina, un ristorante, una lavanderia con annesso vano asciugatura, uno spazio in comune per bagni e docce, nonché un locale riservato all’allattamento e alla sorveglianza di un certo numero di bambini di età inferiore ad un anno. Attualmente, il quartiere è formato da 224 appartamenti in via di ristrutturazione per volere dell’ultima giunta milanese, con il recupero degli spazi originari e della loro destinazione. Il 7 maggio 2014, presso la sede della Società Umanitaria è stata presentata la petizione in favore dell’intitolazione di una strada di Milano alla memoria di Ersilia Majno, promossa dalla Fondazione dell’Asilo Mariuccia.
La Milano di oggi cambia: le regole, sino a poco fa, sono state dettate dall’appeal da esercitare sul resto dell’Europa e del mondo. Adesso, poco alla volta, siamo divenuti consapevoli che la città può diventare attrattiva solo se sarà in grado di rispondere ai bisogni profondi della popolazione: le signore milanesi di quegli anni, che hanno lasciato i loro salotti e hanno saputo ascoltare, ci hanno aperto la strada.
[1] Alma Dolens, op. cit., p. 94.