Bisogna essere forti per controllare il fatto di essere in realtà non corpi, ma manichini.
di Patrizia Calefato
Il mondo della moda sembra attraversato negli ultimi tempi da una sindrome-suicidi simile a quella che sta percorrendo violentemente il mondo delle carceri e quello dei manager. Tre universi apparentemente distanti tra loro, ma in realtà improntati tutti a un totalitarismo di fondo: il totalitarismo del successo e del denaro nell’impresa; il totalitarismo segregante e asfissiante dei corpi nelle prigioni sovraffollate; il totalitarismo della bellezza e dell’apparenza nella moda.
Nel cuore delle metropoli e capitali della moda mondiale, modelle e modelli, che solo poco tempo fa ne erano regine e principi, scelgono la morte, quasi evocando il celebre Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi, nel quale le due figure si dicono “sorelle”, unite da un comune intento.
Nel 2010 il modello francese Tom Nicon, di 22 anni, si lancia nel vuoto dalla finestra di un palazzo milanese, poco dopo avere provato gli abiti che avrebbe indossato nella settimana delle sfilate. La morte volontaria (almeno secondo le versioni più accreditate) del giovane top-model segue di poche settimane quella del suo collega ventiquattrenne Ambrose Olsen avvenuta a New York. Erano entrambi uomini-copertina dalla bellezza speciale: scontrosa quella di Nicon dalle labbra carnose eternamente imbronciate; avvenente e muscolosa quella di Olsen, originario dell’Alaska, che prima di fare il modello era stato falegname, boxer, surfista e volontario nella Marina americana. Uomini il cui destino accompagna, come in una replica beffarda, quello di bellissime eppure anonime reginette della moda come Daul Kim, la modella sudcoreana di soli 20 anni impiccatasi nel novembre 2010 a Parigi, e Noémie Lenoir, testimonial di una celebre casa di prodotti per capelli, il cui tentativo di suicidio fu però salvato in extremis. E perfino un designer visionario e sensibile come Alexander McQueen chiuse volontariamente nel 2010 con la vita, forse disarmato dalla recente morte di due figure femminili di riferimento per lui: l’editor e icona della moda Isabella Blow, e sua madre. Le spiegazioni dei gesti estremi sono lasciate in questi casi alle testimonianze degli amici e delle persone vicine nel lavoro: rituale la sorpresa e il gossip, insieme al ritornello “depressione, delusione d’amore, stress”.
Ma che fine hanno fatto le modelle? Quelle davvero al “top” del successo, della celebrità e della ricchezza che negli anni ’80 e ’90 imperversarono come autentiche star soppiantando il ruolo delle attrici di Hollywood nell’immaginario sociale? Le “Naomi” sono diventate metaforicamente “Noemi”, procedendo dalla passerella e dalle riviste patinate alle feste nei locali della cintura napoletana e della Sardegna pacchiana. Le “Carla” sono diventate invece “Carlà”, ascendendo o discendendo – a seconda dei punti di vista – dal mano nella mano con i grandi stilisti a quello con i politici di successo. L’autentica Naomi, in realtà, splendida quarantenne, si è nel tempo distinta per i suoi scatti d’ira verso fotografi e compagnie aeree, a causa dei quali è stata anche in carcere e ha fatto la spazzina per punizione.
Parliamo però qui degli emblemi di un’epoca in cui le top-model erano conosciute universalmente, presenti su tutti i media da dove dettavano regole di bellezza e modelli di stile. Erano corpi e volti con un nome proprio, un’identità precisa, sebbene plasmata in ogni dettaglio dal fashion-system che stirava i capelli afro di Naomi Campbell, o trasformava in una Zelig perpetua Linda Evangelista. Ed erano donne che primeggiavano comunque rispetto ai colleghi uomini, il cui ruolo si manteneva invece più nell’ombra.
In quel tempo vi fu un’occasione non colta: sin dal loro nascere come fenomeno di costume dell’ultimo ventennio del Novecento, le top-model si andarono trasformando infatti velocemente in “pop-model”, nel momento stesso in cui la moda invadeva con i suoi segni onnipervasivi tutti i media e avvicinava al suo mito un universo di massa. “Modelle quotidiane”, pop-model appunto, potevano così essere tutte o tutti coloro che sceglievano uno stile proprio, che si distinguevano per un guizzo di gusto personale applicato al look. La moda si trasformava allora, da palcoscenico patinato, nel motore di una esteticità quotidiana in grado di educare il gusto quale senso comune di una società. Purtroppo però, soprattutto nell’ultimo decennio, qualcosa non ha funzionato in questo percorso sociale dell’estetica intesa come capacità diffusa di giudicare e di sentire il bello e il suo fondamento, in cui la cultura della moda avrebbe potuto svolgere un ruolo essenziale. Il “pop” ha prevalentemente assunto un senso deteriore e il mito delle modelle, da un lato, si è volgarizzato nel “velinismo” diffuso non solo in Italia, e dall’altro ha svelato l’arcano di uno sfruttamento selvaggio dei corpi – femminili e maschili – da parte del sistema della moda divenuto nella sua prevalenza un sistema finanziario multinazionale.
Le modelle e i modelli di professione oggi non sono più star, ma precari come tanti loro coetanei, migranti spesso dall’Est Europa o dall’Asia, che solo in pochissimi casi riescono a raggiungere retribuzioni eccezionali, mentre sempre più spesso si arrendono di fronte a delusioni o sconfitte. In questo mondo l’anoressia è sempre in agguato, quale malattia sociale di cui non è in sé responsabile la moda, bensì il meccanismo di costrizione dei corpi che costitutivamente il modello e la modella accettano nella loro professione. Isabelle Caro, la modella anoressica che nel 2007 aveva fatto del suo corpo-scheletro fotografato da Oliviero Toscani un monito per le giovani generazioni, non ce l’ha fatta ed è morta a 28 anni nel 2010, seguita a distanza di un mese da sua madre suicida per senso di colpa. Bisogna essere forti per controllare il fatto di essere in realtà non corpi, ma manichini. Ci riuscirono solo alcune delle “vecchie” mannequin degli anni ’50 e ’60, ci riuscirono le “vincenti” top-model degli anni ’80, ma oggi tutto è molto più difficile. E in questo mondo, gli uomini, i bellissimi che fanno i machi in fotografia, ma hanno magari altri desideri, sono altrettanto fragili delle loro colleghe.
Sembra forse tornato il tempo in cui un personaggio emblematico del cinema italiano degli anni ’60, la Adriana del film di Antonio Pietrangeli Bisogna essere forti per controllare il fatto di essere in realtà non corpi, ma manichinBisogna essere forti per controllare il fatto di essere in realtà non corpi, ma manichin, decide di far finire la sua frustrata ascesa al successo come modella e attrice gettandosi dalla finestra. Eppure erano allora gli anni del boom, dell’ottimismo, del benessere apparentemente semplice da ottenere. Oggi, in tempi per giunta di crisi, bisogna rassegnarsi a una sorte mortifera? Oppure i professionisti della moda, i modelli e le modelle, i creatori, quelle e quei “pop-model” che credono davvero alla possibilità di un riscatto culturale e simbolico dell’impresa moda hanno qualche speranza?
(Tratto dali libro di Patrizia Calefato “La moda oltre la moda”, Milano: Lupetti, 2011).
Patrizia Calefato insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi nell’Università degli studi di Bari Aldo Moro. Si occupa di teoria di moda, comunicazione e linguaggi della contemporaneità, studi culturali, studi di genere.