Storie di vite che esistono pure se non se ne è mai state a conoscenza.
Lo ammetto: sono una di quelle persone che non ama la tv e ne fa volentieri a meno. Preferisco di gran lunga andare al cinema e guardare anche due, tre film di seguito sempre che i titoli in programma mi ispirino.
Tuttavia l’arrivo dell’autunno e la rassegnazione che mi ha preso nel non poter più frequentare le rassegne di film all’aperto ha fatto sì che qualche serata l’abbia dedicata alle fiction e ai programmi tv essendo completamente ignara di quello che mi aspettava nei vari palinsesti. Posso dire di essere rimasta colpita da qualche puntata della nuova serie Rai “È arrivata la felicità”.
Cast di tutto rispetto che annovera Pandolfi, Santamaria, Savino, Fenech; due registi differenti e la pretesa di dare voce ai cambiamenti correnti nella vita di coppia e di indagare – col piglio di una quasi favola – nelle pieghe delle nuove tipologie di famiglia che abbiamo nella nostra società.
Passi per i nomi dei protagonisti che si rifanno alle opere letterarie di Ariosto e Boiardo, difatti abbiamo una vedova di nome Angelica e un divorziato che si chiama Orlando, la notizia che più avrebbe dovuto fare scalpore, almeno nella conferenza stampa, era la presenza di una coppia formata da due donne in attesa di diventare madri con l’inseminazione artificiale. Beh, un po’ come forse si è detto per il film di Maria Sole Tognazzi, è proprio la trattazione di questa coppia a calamitare il maggior numero di stereotipi su di sé. Nel senso che, lungi dal dare una visuale moderna, si inscrivono queste due ragazze in un quadretto oltremodo chiuso e finto. Può suscitare stupore assistere a un loro bacio in prima serata, ma tutto l’effetto novità viene annullato dalle trame realmente troppo banali e poco consistenti. Pure il mestiere che svolge una delle donne (la guardia giurata), presuppone quella solita divisione tra ruolo maschile e femminile per nulla innovativa.
Nello scorrere delle puntate si è evidenziato un carattere più leggero di una di loro e uno più protettivo e “materno” dell’altra; c’e perfino la presenza di una suocera avversa al riconoscimento della situazione familiare della figlia e dedita a riempire il quartiere con racconti inventati su un presunto marito morto da cui aspetterebbe il figlio.
Ecco: direi che non è questo il messaggio di accettazione e di “normalità” che si vorrebbe vedere rappresentato, anche se non sono così miope da non capire che l’accozzaglia di luoghi comuni svolge efficacemente la funzione di rappresentare le opinioni medie di telespettatori e telespettatrici. Potrei soffermarmi sulla ovvia storia d’amore che coinvolgerà i due protagonisti e le facilmente prevedibili conseguenze dell’unione tra due famiglie già formate e differenti, ma ritorno proprio sulla stesura dei personaggi vittime di dicotomie fin troppo immaginabili e modellati realmente con poco spessore. Peccato.
Lo sciopero dell’Auditel dovuto ai recenti problemi per le e-mail che avrebbero svelato le identità delle famiglie campione, non mi permette di riportare dati attuali sulla riuscita della messa in onda, ma registro cifre di tutto rispetto nelle prime settimane, anche se non eclatanti per la rete ammiraglia Rai.
Altro breve cenno, sulla scia del tema da me affrontato poc’anzi lo dedico a una serie di programmi in onda su Real Time, rete tematica di Discovery rivolta prevalentemente a un pubblico femminile. “Vite divergenti – Storie di un altro genere”, indaga sulla realtà trans italiana con garbo e senza sensazionalismi tramite brevi interviste a cura del Mit (Movimento Identità Transessuale). “Io sono Jazz”, introduce nella vita di una transgender di appena quattordici anni e ci mostra i suoi dubbi, i problemi pratici, la vita in famiglia: il tutto tenendo conto della sua volontà di portare avanti la transizione.
“Tutto su mio padre” tratta il delicato argomento di un padre che decide di diventare donna e il suo rapporto col figlio adolescente. In questo caso, mi piace soffermarmi su un aspetto che ritengo non secondario: presentare questa serie di docu-reality su un canale al femminile ha, per me, motivazioni di base fortissime: l’introspezione, l’analisi di sentimenti ed emozioni, l’ascolto.
Molte donne – come verifico anche nei forum e nei commenti ad articoli che trattano di unioni omosessuali – sono davvero capaci di esprimersi con tranquillità e senza astio su tali argomenti. Cosa che non riesce facilmente a tanti uomini che spesso si danno al turpiloquio e invocano l’uso di metodi correttivi per tutti questi soggetti devianti/ti.
La narrazione, in questi programmi, è scorrevole, non cerca la lacrima facile e nemmeno esalta le cure ormonali o auspica una società tutta dedita alla pansessualità come fosse una moda. Semplicemente, mostra storie di vite che esistono pure se non se ne è mai state a conoscenza. Toccante la videointervista di una transessuale di novanta anni, considerata una vergogna dai suoi familiari e discriminata ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, che però ce l’ha fatta ed ha amato ed ama liberamente. Credo che alle spettatrici di questi programmi stiano a cuore le varie forme dell’amore – verso se stesse/i, verso i propri genitori, verso i fratelli e le sorelle, i compagni di scuola – e le differenti voci per esprimerlo anche quando non è affatto facile.