Non esistono sport femminili o sport maschili
Le differenze di genere che continuano ad intasare la nostra società e il nostro modo di pensare, influenzano anche un settore che, queste differenze, dovrebbe preservarle, ovvero lo sport.
La società è convinta che la nostra appartenenza ad un dato sesso porti a seguire determinate scelte di vita, determinate ideologie, determinate professioni o determinati sport.
La nostra mente è impregnata da stereotipi di genere che offuscano la realtà e che ci portano ad attribuire specifici aggettivi e specifici sostantivi alle persone in base al sesso di appartenenza.
Per queste ragioni quando si parla di un ingegnere, in automatico, si pensa ad un uomo, per esempio, e, quando si parla di una maestra di scuola dell’infanzia, si pensa ad una donna.
Questi meccanismi di associazione avvengono anche nello sport: ed è per questa ragione che, tutt’oggi (ahimè), nel 2015, certi sport vengono ancora considerati prettamente maschili e altri prettamente femminili. Ciò, ovviamente, è da ricollegare all’educazione scolastica. Non me ne voglia la pubblica istruzione ma gran parte della colpa va anche a lei, del resto se non influisce la scuola sull’educazione delle bambine e dei bambini, chi dovrebbe farlo? (A parte i genitori, si intende).
Fin dalla scuola dell’infanzia ci viene inculcato che “maschietti” e “femminucce” hanno comportamenti diversi, giocano con giocattoli diversi, hanno un modo di stare al mondo diverso e (non si sa per quale ragione) le “femminucce” sono sensibili e materne, mentre i maschietti sono coraggiosi e indipendenti e, di conseguenza, alle bambine spettano determinati sport (in genere non di contatto fisico) e ai bambini altri tipi di sport (più aggressivi e di contatto). Non vengono prese minimamente in considerazione le attitudini e le predisposizioni di ogni singola alunna e di ogni singolo alunno, ma si pensa che “rientrino” in determinate “categorie” per il solo fatto di appartenere al genere maschile o al genere femminile.
«È molto facile pensare che colei che non si adegua alle aspettative di ruolo sia anormale, invece di mettere in dubbio la validità delle norme che stabiliscono i comportamenti e gli atteggiamenti attribuiti alle donne», racconta nel suo libro autobiografico Stefania Bianchini, ex-campionessa mondiale di boxe e kickboxing, per citare un’atleta italiana che non si è lasciata piegare dagli stereotipi della società.
Se lo sport serve per l’educazione e la formazione di ogni singolo individuo, perché vi sono ancora, nel 2015, differenze e discriminazioni all’interno di esso?
Perché quando si parla di rugby o di calcio si pensa in automatico agli uomini? Forse perché si è ancora convinti che le donne siano portatrici di determinate caratteristiche quali la bontà, la dolcezza e, che per questioni di “inferiorità fisica”, non possano praticare gli stessi sport che, per chissà quale losca ragione, il mondo ha deciso di attribuire al genere maschile?
A tutto ciò bisogna aggiungere il fatto che, a livello mediatico, determinati sport praticati prevalentemente da donne, non hanno la stessa rappresentanza di altri sport prettamente maschili, come il calcio, il ciclismo o il motociclismo, per citare i più seguiti in Italia. La maggior parte dei telegiornali sportivi parla di atleti maschi, calciatori nella maggior parte dei casi, lasciando le atlete in secondo piano. Per non parlare della divisione dei ruoli all’interno delle federazioni sportive, totalmente sprovviste di presenza femminile. È cosa nota, infatti, come ruoli quali presidente o dirigente siano sempre ricoperti da uomini.
L’Unione Europea si è fatta avanti, esprimendo, durante una Conferenza a favore delle parità di genere, tenutasi nel dicembre 2014, in Lituania, il suo disappunto e la sua contrarietà verso gli stereotipi di genere, con il discorso di Androulla Vassiliou, ex Commissaria dell’UE per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù.
«Sono sotto gli occhi di ciascuno quanti ostacoli le donne debbano ancora affrontare nello sport, sia sotto l’aspetto agonistico, sia sotto quello dirigenziale. Non abbiamo bisogno di altre dichiarazioni, adesso servono i fatti. Fatti che diano, e garantiscano, la possibilità alle donne di praticare sport in totale sicurezza e occupare ruoli di potere», aveva affermato Androulla durante la Conferenza di Vilnius.
A dare il via a questa ricercata parità di genere nel mondo sportivo hanno contribuito i Giochi Olimpici di Londra: nel 2012, infatti, le donne hanno gareggiato in tutti gli sport.
Apro una piccola parentesi sul tema Olimpiadi: nonostante la manifestazione risalga ai tempi dell’antica Grecia, la partecipazione delle donne risale solo ai primi anni del Novecento, ed era limitata a soli a due sport: il golf e il tennis. Nel 1930 il privilegio alle donne di praticare sport venne concesso anche nel calcio, quando venne fondato il Gruppo Femminile Calcistico, a Milano, con l’obbligo, però, di dover giocare con gonne lunghe.
Le Olimpiadi del 2012 hanno stabilito, quindi, un nuovo record, non solo a livello sportivo ma anche e soprattutto a livello umanitario.
«È una pietra miliare nella lunga battaglia per l’uguaglianza tra donne e uomini. Ma deve rappresentare un punto di partenza», aveva affermato l’ex ministra Androulla.
Per tre paesi in particolare questa è stata una grande svolta: Qatar, Arabia Saudita e Brunei che, per la prima volta, hanno riconosciuto alle donne il diritto di partecipare alle gare olimpiche.
Lo sport, in tutte le sue sfumature, dovrebbe preservare e valorizzare le differenze di ogni singolo individuo piuttosto che accentuarle, ed è per questo che le famiglie e le strutture educative (sia scolastiche che extrascolastiche) dovrebbero dar spazio ai bambini e alle bambine che sognano di essere ballerine o ballerini, giocatrici o giocatrici di rugby, pallavoliste o pallavolisti, cestiste o cestisti, senza inculcare loro valori antiquati e superati basati sull’appartenenza ad un determinato genere.
Lo sport è unisex, va oltre tutto questo.