E’ necessaio avere cura e attenzione nell’interfacciarsi al mondo dei più giovani non considerandoli piccoli adulti.
La spettatrice
È di appena una settimana fa il polemico addio alla trasmissione Ti lascio una canzone da parte della sua conduttrice e ho notato un tripudio di articoli seri in merito. Come se la critica ufficiale non aspettasse altro. Troppo facile sparare a zero su un programma che è solo la punta di un iceberg del cattivo gusto e della cattiva tv.
Mi concedo una brevissima battuta per segnalare che Antonella Clerici e i suoi non hanno inventato nulla e che, se dobbiamo essere sincere, è più la batosta degli ascolti bassi che un sano rinsavimento il motivo del velenoso messaggio finale. Del resto, qualche giorno addietro, è andata in onda l’ennesima serie de Lo zecchino d’oro e io confesso che ne ho sempre avuto paura: quando ero alla materna urlavo e facevo spegnere il televisore e, crescendo, non ho mutato di molto le mie opinioni. Cosa mi ha sempre spaventata? I visi di quelle bimbe e di quei bimbi. E le loro movenze finte. Le canzoncine in sé non sono mai state brutte o dannose: è che a me proprio non andava (va) giù la competizione plateale tra giovani. Direi che invece i palinsesti se ne nutrono da qualche anno a questa parte.
Talent show e reality vivono per seguire le evoluzioni e gli intrighi di semi-adolescenti spiati con un fare a dir poco morboso. Non mi riferisco solo ad Amici o 16 anni e incinta. Ancora più giovani, ad esempio, i “casi” di cui si occupavano in Sos Tata, programma che pure aveva riscosso molto successo mostrando urla, marachelle e pappe sputate.
Da due settimane va in onda anche una versione baby di Bake off – Dolci in forno e le tv satellitari ci presentano ogni sorta di edizione di programmi culinari dove gli/le chef sono dodicenni o poco meno. E le star dei telefilm Disney sono sempre under 18 e con genitori come solidi manager pronti a tutto. Questo colpisce e mi fa riflettere: pur non volendo ripercorrere le tristi vicende degli esordi di piccoli attori famosi che sono stati derubati dai loro parenti o finiti in disgrazia, mi chiedo sempre se è poi vero che l’Italia (e il resto del mondo) sia la patria di tutti questi artisti. La mia domanda è lecita, e vale pure per i calciatori in erba.
Se meno di quindici giorni fa una partita di calcetto amatoriale è finita con ricoveri in ospedale per gli insulti che i padri e le madri si lanciavano, che mi resta da pensare? I sani principi che lo sport, l’impegno, l’esercizio musicale dovrebbero trasmettere, dove sono ? Non sarà che le ambizioni smodate degli adulti finiscono per soffocarli? Tutte queste lacrime su cui indugiano le telecamere mi spaventano. Mi sembrano un tributo che i genitori stessi si dedicano per aver investito soldi nella preparazione della prole. E sono rabbiosi. Dov’è finito il motto “L’importante è partecipare”? Contratti, apparizioni, comparsate e poi? Resta davvero poco. E la storia dello spettacolo non insegna.
Se il divertimento viene meno, questi giovani protagonisti come vengono trattati? Come delle adulte ammiccanti, le femmine, e come machi i maschietti. C’è poca fantasia a riguardo. Si parla solo di fidanzatini, tradimenti, amori improvvisi. Con buona pace dell’educazione sentimentale. Bimbe che sembrano grosse bomboniere e portano scollature improbabili e bimbi virilizzati oltremodo, sempre sottoposti a pressioni. Ho avuto modo di guardare foto che ritraggono i cambiamenti (anche chirurgici) cui sono stati sottoposti alcuni vincitori di edizioni passate di vari programmi: è un quadro desolante. Tutto costruito a tavolino, persino la vicinanza alla “lobby gay” (e lo dico con amarezza) e la messa a nudo, letterale.
Ecco, questi e tanti altri sono i motivi per cui non rimpiango la sparizione di programmi come il succitato. Di novelli Mangiafuoco che sfruttano Pinocchi ingenui è pieno il mondo, non solo la tv. Da anni si lanciano appelli per un uso corretto e controllato del web, per una maggiore attenzione nella pubblicazione di foto di minori, addirittura esisteva un divieto per la presenza di minori negli spot che venne aggirato e poi sospeso. Non parlo di repressione, bensì di cura e attenzione nell’interfacciarsi al mondo dei più giovani non considerandoli piccoli adulti su cui riversare le proprie proiezioni. È la prima regola che insegnano a noi pedagogiste e forse andrebbe riscoperta. Anche – perché no – dagli autori televisivi.