La giornalista curda che non aveva paura di sfidare lo Stato islamico
Pochi giorni fa l’Isis ha comunicato l’uccisione della giornalista trentenne Ruqia Hassan, conosciuta con lo pseudonimo di Nisan Ibrahim. Ruqia cercava di raccontare, con una sottile ironia, il disagio dei civili nei confronti dell’Isis e il senso di oppressione in cui lei e altri cittadini erano costretti a vivere da quando l’Isis aveva trasformato Raqqa nella loro capitale, nel 2013. Poco più di due anni dopo, le atrocità continuano, e sono sempre meno silenziose. Ruqia aveva dimostrato di non voler piegare la testa da quando si era rifiutata di lasciare la sua città, dopo essere stata invasa, trovandosi quindi a combattere sia contro il regime che contro gli estremisti. Gli attivisti del gruppo “Raqqa is being Slaughtered Silently” (“Raqqa viene uccisa in silenzio”) sostengono, però, che Ruqia non sia l’unica vittima uccisa dagli uomini del Califfo. Dal 2011 a oggi sono stati tanti i giornalisti uccisi. Il Syrian Network, nel 2015, ne ha contati 94. E’ così che l’Isis e il regime di Assad cercano di tacere le voci indipendenti. Con la morte.
«Sono a Raqqa e ho ricevuto minacce di morte – diceva Ruqia – ma quando l’Isis mi arresterà e mi ucciderà sarà tutto ok, perché loro mi taglieranno testa ma io ho la dignità. Meglio che vivere nell’umiliazione sotto l’Isis».
Ruquia non è stata uccisa la scorsa settimana. Era scomparsa da alcuni mesi e la sua morte potrebbe risalire al mese di Settembre del 2015. Sono stati gli attivisti del gruppo “Raqqa is being Slaughtered Silently” a dare la conferma della morte della giornalista.
L’Independent traduce così l’ultimo post sul suo profilo Facebook, pubblicato a luglio del 2015, in cui ironizzava sulla guerra al Wi-Fi dichiarata dai jihadisti nella sua città: «Avanti, tagliateci internet, i nostri piccioni viaggiatori non se ne lamenteranno».
La famiglia di Ruqia, scrive il Daily Mail, è stata informata solo la settimana passata della sua uccisione, accusata di essere una spia.
Per gli attivisti del gruppo il silenzio dello Stato islamico, che usa le esecuzioni pubbliche come una forma di propaganda e di intimidazione, ha una spiegazione: l’account Facebook della ragazza doveva servire a raccogliere informazioni sulle persone con le quali lei era in contatto, sia a Raqqa che al di fuori della Siria.
Ruqia era l’unica reporter donna rimasta a Raqqa, che, in veste di coraggiosa “citizen journalist”, denunciava i soprusi dei jihadisti di Daesh, lottando per la propria gente e per il proprio paese, con l’unica arma che possedeva: la penna.
E’ questo quello che succede se non pieghi la testa e vivi secondo le regole dello Stato islamico: paghi, e lo fai con la vita.