Riusciremo mai ad avere nuovi occhi per guardare il mondo che ci circonda?
Ammetto che devo attribuire la scoperta di questi due programmi televisivi alla complicità dell’influenza di quest’ultima settimana. Mi hanno incuriosita quando il sonno – a causa della febbre – tardava ad arrivare e i libri da leggere erano terminati troppo velocemente.
“Il mondo segreto dei bambini” è una serie trasmessa da Real Time che si presenta come un documentario girato con telecamere nascoste all’interno di un asilo nido con la presenza di bambine e bambine di varie fasce di età. Sgombro subito il campo da un facile, quanto errato, accostamento a qualche reality moderno. Il prodotto finale appare molto più come uno studio psicologico e sociologico che uno show. Ad analizzare i comportamenti dei baby protagonisti ci sono un neuro-scienziato e uno psicologo dell’età evolutiva, mentre all’interno dell’asilo stesso due abili maestre interagiscono con i giovanissimi alunni. I due esperti adulti non incontrano mai le bimbe e i bimbi che osservano con grandi schermi e sentono in cuffia. L’effetto che se ne ricava è quello di un esperimento come i tanti a corredo dei libri di psicologia, quelli tanto in voga in Usa. Il lavoro degli autori è ridotto all’osso: una piccola presentazione delle famiglie di provenienza dei bambini, sotto forma di intervista ai genitori e di qualche scena di vita quotidiana, serve più che altro a dar libero sfogo alle descrizioni che madri e padri fanno della loro progenie e a confrontarle poi coi reali comportamenti dei figli in azione. Il prodotto che si ottiene è un’ora di programma piacevole da seguire dove gli assoluti protagonisti, senza alcun filtro, sono i piccoli. Gli stessi esperti si commuovono, gioiscono o si stupiscono delle interazioni all’interno dell’asilo. Mai trattano con sufficienza le manifestazioni affettive o di rabbia e delusione che passano sui loro schermi, anzi. Forniscono accurate spiegazioni anche delle cose che i bimbi si dicono all’orecchio, non rendono melense le loro lacrime né giustificano o stigmatizzano i comportamenti violenti che alcuni/e mettono in atto per affermarsi sul gruppo o emarginare un membro non gradito per i più svariati motivi. Non c’è compiacimento alcuno nella narrazione e ciò giova alla struttura complessiva del programma. Mi ha interessato soprattutto la capacità divulgativa di concetti base di pedagogia e psicologia senza svilirli e la possibilità di vedere da vicino anche come sono strutturate alcune realtà scolastiche in paesi differenti dal nostro dove gli asili nido comunali sono appannaggio di pochissimi eletti. Segnalo anche che molte mamme e qualche papà intervistato si sentono in colpa perché lavorano troppo e affidano i figli alle tate o, appunto, alle scuole e quasi legano a ciò la scarsa educazione della prole. Tutto il mondo è paese, almeno nell’attribuire alla scuola il compito di educare, non solo quello di istruire.
“Chiedi a papà”, viene trasmesso su Rai Tre in seconda serata. Ci saranno dieci puntate di questo programma, il venerdì sera. Sin dal titolo si può comprendere il cambio di punto di vista che le famiglie coinvolte sono portate a fare: si tratta di restare per cinque giorni senza mamme in casa e affidare la cura dei figli ai padri. Da molti anni a sprazzi su vari canali c’erano stati reality simili ma incentrati sulla figura della moglie che cambiava famiglia per una o due settimane e si trovava a vivere in realtà differenti dalla propria. Questa volta il cardine del cambiamento non è dovuto all’arrivo di una estranea in casa, quanto al nuovo ruolo che la donna lascia al suo uomo. Se posso dirlo, mi sembra che qui ci sia molto di più lo zampino degli autori (alcuni ben conosciuti come instancabili macchine che sfornano fiction televisive) e che sostanzialmente ci sia una “lezioncina” da imparare alla fine di ogni puntata. L’idea di base è di aprire una finestra su varie tipologie di famiglie, provenienti da ogni zona d’Italia, con estrazioni sociali del tutto varie. Il gioco funziona nell’accostamento di personaggi sia femminili che maschili: Nord/Sud oppure mamma lavoratrice/mamma casalinga. I risultati sono, almeno nelle prime puntate, di un ravvedimento tardivo del maschio di casa che comprende quanta fatica faccia sua moglie a crescere i loro figli e a pulire casa. Niente di nuovo sotto al sole, mi verrebbe da dire. Madri che si gettano con ansia nelle immense piscine degli alberghi di lusso nei quali sono ospitate per cinque giorni, costrette come sono a consegnare i cellulari all’ingresso e non potendo comunicare coi congiunti, si confidano le loro paure su come troveranno la casa al rientro o sulle cose a cui hanno dovuto rinunciare per le figlie e i figli. I soliti mariti assenti e strafottenti o – a sorpresa e scatenando l’invidia dell’altra donna – il consorte che sa usare il ferro da stiro e persino portare fuori la spazzatura. Non posso guardarlo senza chiedermi in continuazione se realmente i nuclei familiari siano così stereotipati nei loro ruoli. Dandomi, ahimè, una risposta affermativa, suffragata anche dai recenti dati negativi sul gender gap nel mondo del lavoro e dalla cronaca piena zeppa di violenze domestiche e soprusi familiari.
Poi ci areniamo sull’introduzione del riconoscimento delle unioni civili e di tutti gli altri annessi e connessi nonostante siano già presenti nelle nostre società: mi pare il minimo, vista la zavorra emotivo-relazionale con cui ci avvolgiamo neanche fosse la nostra coperta di Linus! Riusciremo mai ad avere nuovi occhi per guardare il mondo che ci circonda?