Viva il turbocapitalismo e le sciure chic che comprando i loro stivali da mille euri e il cachemirino fanno progredire l’economia, e pazienza se cento poveri cristi alla volta perdono il posto per “ristrutturazione aziendale”
di Maria Elena Abbate
Negli Stati Uniti si stima che la media delle proposte pubblicitarie che un consumatore incontra possa arrivare a 2000 al giorno. In Italia non ci sono studi così precisi, ma si pensa che siano più di mille. (Da internet).
Nella sala d’attesa del medico, del dentista o nei centri estetici, siamo accolte da pile di settimanali femminili. Il titolo principale di una copertina scelta a caso recita: “100 pagine moda”. All’interno si può prevedibilmente trovare l’“abitino nero con accessori brillanti per serate di seduzione”, il piumino lucido tipo sacco della spazzatura ma che fa tanto aperitivo-in-centro-a-Milano, il diamante o l’orologio di marca che non potremo mai avvicinare, il siero al caviale per una pelle similplastica… Adoro l’espressione “look smart” (leggi: a poco prezzo) usata per definire le poveracce (leggi: donne del ceto medio prosciugato dalla crisi) che fanno i loro acquisti nelle catene commerciali. Vengono disprezzate dall’alta moda, ma come disse qualcuno “I poveri hanno pochi soldi ma sono tanti”, quindi fanno guadagnare sulla quantità. Squallide giacchine e pantaloni striminziti che non riescono a nascondere la qualità scadente neanche in foto, borse in “ecopelle” cioè in plastica fabbricata in oriente, maglioncini anonimi.
Le modelle, magre oltre ogni buonsenso e con occhiaie preoccupanti, vengono sapientemente inserite da fotografi strapagati in contesti sadomaso o stanno sdraiate su spiagge ignote a chi va a Gabicce da quarant’anni. Le ragazze guardano nell’obiettivo con la faccia di chi ha appena assistito a un omicidio indossando tacchi da 20 cm, bluse o camicioni “griffati” con stampe orribili che costano lo stipendio di una cassiera, improbabili stivali il cui prezzo si legge nella didascalia: 1000 euro. Le scarpe 1500, la borsa 650, il resto in proporzione. Gli articoli “di costume” non sono altro che il contorno, la giustificazione al lavoro dei pubblicitari. Un insieme di banalità che qualunque commentatore Facebook un po’ brillante smonterebbe in cinque minuti. Tutto ciò regge un giro di milioni o miliardi. Viva il turbocapitalismo e le sciure chic che comprando i loro stivali da mille euri e il cachemirino fanno progredire l’economia, e pazienza se cento poveri cristi alla volta perdono il posto per “ristrutturazione aziendale
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