Alzi la mano chi sa esattamente cosa si intende per aborto farmacologico o conosce le differenze fra quest’ultimo e l’aborto chirurgico utilizzati entrambi, in alternativa, per l’interruzione volontaria di gravidanza entro la settima settimana.
Un passo indietro. Da quando l’interruzione di gravidanza è stata legalizzata in Italia, l‘aborto e stato eseguito in regime di day hospital entro la 12 settimana (90 giorni dall’ultima mestruazione), esclusivamente con una tecnica chirurgica denominata revisione della cavità uterina. In pratica, in anestesia generale o locale, tramite l’introduzione di una cannula viene aspirato l’embrione all’interno dell’utero. Nei casi di gravidanza superiore alla 8ª settimana di gestazione, la revisione viene eseguita previa dilatazione del collo dell’utero per permettere l’introduzione di cannule di maggiore diametro necessarie per asportare tutto il materiale abortivo.
I tempi chirurgici sono brevi, in genere fra i dieci-quindici minuti e le complicazioni rare:
emorragia grave (1-2 casi su 1000 interventi), perforazione uterina (1-2 casi su 1000 interventi), danno al collo uterino (2 casi su 1000 interventi) e infezioni (1 caso su 100 interventi).
Sono possibili aborti incompleti, quindi con la necessità di ripetere l’intervento chirurgico (2-4 casi su 100 interventi).
L’aborto medico (RU 486), utilizzato da decenni in diversi stati europei, in Italia è stato approvato solo nel 2009 dopo accesissime battaglie politiche, ma a tutt’oggi rimane un metodo poco conosciuto e utilizzato.
Sostanzialmente è un’opzione non chirurgica, utilizzando farmaci che inducono un aborto. In questo caso vengono somministrati due farmaci in giorni diversi, il secondo in terza giornata. Il mifepristone, antagonista del progesterone e somministrato per via orale, fra i vari effetti, aumenta la contrattilità dell’utero e sensibilizza il miometrio.
ll secondo farmaco, Misoprostolo per bocca o vaginale, è un analogo delle prostaglandine che agisce provocando contrazioni uterine.
In una piccola percentuale dei casi (circa il 3%), l’espulsione avviene prima dell’assunzione della prostaglandina.
Questa opzione, con uno schema terapeutico ormai consolidato, è considerata appropriata e quindi di prima scelta fino a 9 settimane, autorizzata in Italia entro le 7 settimane. L’efficacia si aggira fra il 95% e il 98%. Il tasso dei fallimenti è del 5%, cioè la percentuale dei casi dove è necessario l’interruzione chirurgica per un aborto incompleto o per bloccare eventuali emorragie persistenti. I possibili effetti collaterali sono, in ordine decrescente di frequenza, crampi dolorosi addominali, mal di testa, nausea, vomito, diarrea transitoria, stato di debolezza, con abbassamento della pressione arteriosa. Rare le infezioni e le emorragie che richiedono trasfusioni.
Il controllo deve essere eseguito a distanza di 15-21 giorni con visita ginecologica ambulatoriale ed ecografia trans vaginale per verificare l’assenza di residui abortivi ed eventuali complicanze.
Personalmente se dovessi consigliare ad una paziente quale metodica scegliere, in assenza di controindicazioni cliniche, sicuramente opterei per l’aborto farmacologico, procedura meno invasiva, senza anestesia e con bassi rischi.
Ma sarebbe banalizzare una scelta importante che merita una informazione completa su entrambe le metodiche in modo da ampliare le possibilità e aiutare a individuare quella più idonea sotto il profilo clinico e psicologico. Questo dovrebbe essere fatto ma in realtà non avviene, o meglio l’informazione sull’aborto medico e la diffusione del suo utilizzo rimangono ancora di gran lunga inferiori al metodo chirurgico.
Nonostante il trend di crescita rispetto al 2009, l’utilizzo della RU486 si attesta al 9.7% con fanalini di coda a livello regionale, come la Lombardia, ferma al 4.5%, al quindicesimo posto rispetto ad altre regioni più virtuose. La scarsa valorizzazione e diffusione del metodo rispecchia diverse criticità. L‘alto numero di obiettori allungando i tempi di attesa fra la certificazione e la data di intervento ne rendono difficoltosa la sua utilizzazione entro la settima settimana, limite temporale imposto in Italia rispetto ad altri Paesi Europei dove il termine è spostato alla 9 settimana di amenorrea.
A questo si aggiunge la differente modalità di ricovero per le due metodiche, in day hospital per l’aborto chirurgico, in regime ordinario con tre giorni di ricovero per l’interruzione farmacologica, questo in contrasto con i dati della lettura scientifica mondiale che segnalano un’assenza di maggiori complicazioni quando la procedura viene eseguita in regime ambulatoriale. Non a caso in molte nazioni europee, Francia in primis, l’aborto medico è autorizzato anche al di fuori della struttura ospedaliera. In Italia rare regioni, come Emilia Romagna o la Toscana, utilizzano la RU 486 in day hospital o nei consultori come previsto dall’ articolo 8 della legge 194.
Questa arretratezza, dovuta come sempre a interferenze e condizionamenti ideologici e religiosi, gioca sulla pelle delle donne. A loro dovrebbe essere offerta solo una informazione chiara e trasparente, la possibilità di scegliere entrambe le procedure di interruzione volontaria di gravidanza e una non speculativa medicalizzazione. Sicuramente anche i costi sanitari ne sarebbero avvantaggiati seguendo criteri di appropriatezza clinica e organizzativa. E in tempi di tagli ingenti alla sanità, non è poco.